
Epatite dopo trasfusione: il diritto al risarcimento sorge quando si manifestano i sintomi
In seguito ad una trasfusione di sangue infetto, un uomo contrae l’epatite C, che si manifesta in tutta la sua gravità solo a distanza di molti anni dal fatto, costringendo il malcapitato ad un trapianto di fegato. Il danneggiato agisce in giudizio contro il Ministero della Salute al fine di ottenere il ristoro per i danni patiti. I giudici di merito gli riconoscono il risarcimento, ma liquidano il danno solo a far data dal momento in cui la malattia si è manifesta (nel 2009) e non dal momento della contrazione dell’infezione (nel 1969).
La Corte di Cassazione, con la sentenza del 17 febbraio 2023 n. 5119 (testo in calce), conferma la propria giurisprudenza in materia di danni lungolatenti, ossia danni che si manifestano a distanza di tempo dal fatto illecito. Il diritto al risarcimento del danno biologico sorge solo nel momento in cui si manifestano i sintomi e non dalla contrazione dell’infezione. Infatti, il danno biologico non consiste nella mera lesione dell’integrità psicofisica ma nelle conseguenze pregiudizievoli per la persona. In difetto di conseguenze, non v’è danno risarcibile, diversamente opinando si configura un danno in re ipsa, privo di accertamento sul nesso di causalità giuridica tra evento ed effetti dannosi. In altre parole, «finché l’agente patogeno innescato dal fatto illecito non si manifesta, non si realizza alcun danno risarcibile, in quanto solo il danno conseguenza costituisce il parametro di determinazione del danno ingiusto».
La vicenda
Nel 1969, un uomo subiva una trasfusione di sangue e, senza saperlo, contraeva l’epatite C. La malattia veniva scoperta solo nel 2001 e si manifestava in tutta la sua gravità nel 2009, tanto da costringere ilmalcapitato ad un trapianto di fegato. L’uomo agiva in giudizio contro il Ministero della Salute e contro l’azienda ospedaliera, al fine di ottenere il risarcimento del danno patito a causa della trasfusione. Il Tribunale rigettava la domanda attorea sull’assunto che, nel 1969, non era ancora nota l’epatite di tipo C e, quindi, non poteva configurarsi l’obbligo in capo all’amministrazione sanitaria di prevenirne la diffusione. La Corte d’Appello, invece, statuiva che la convenuta era gravata dall’obbligo di controllare la provenienza e l’utilizzabilità del sangue usato per le trasfusioni. Pertanto, veniva riconosciuto alla vittima un danno biologico su invalidità permanente del 40% a partire dal 2009, anno in cui la malattia aveva cessato di essere latente; inoltre, il danno morale era liquidato nella misura del 30% del danno biologico.
Il Ministero della Salute viene condannato al pagamento di circa 334 mila euro e ricorre in Cassazione.
Il risarcimento nel caso di danni lungolatenti
Il danneggiato lamenta che la sentenza gravata abbia determinato l’ammontare del danno biologico con riguardo al tempo in cui la malattia si è palesata (2009) e non già nel momento in cui essa è stata contratta (1969). È di tutta evidenza che, la differenza sul quantum, a seconda della decorrenza, sia notevole.
La Suprema Corte considera infondata la censura del danneggiato.
Nel caso di specie, ci si trova di fronte ad un danno lungolatente, ossia un danno (la malattia) che si è manifestato a distanza di tempo (circa trent’anni) rispetto al fatto illecito (la trasfusione di sangue infetto). Orbene, in una recente pronuncia (Cass. 25887/2022), i giudici di legittimità hanno riconosciuto che il danno vada liquidato con riferimento al momento in cui la malattia si è manifestata e non al tempo della contrazione dell’infezione. Infatti, il danno biologico non consiste nella semplice lesione dell’integrità fisica ma nelle conseguenze pregiudizievoli che ne derivano. Nel caso oggetto di scrutinio, il ricorrente, per anni, non ha lamentato alcun sintomo ed era ignaro della malattia; inoltre, non ha subito pregiudizi, se non quando l’epatite si è palesata nella sua forma più grave, evolvendosi in cirrosi epatica e costringendolo al trapianto di fegato.
Per quale ragione il danno va liquidato nel momento in cui si manifestano i sintomi della malattia?
Perché in assenza di un concreto pregiudizio, non sussiste un danno risarcibile, in quanto esso non è presunto né coincidente con l’evento (danno in re ipsa), ma si tratta di un “danno-conseguenza”.
Il danno conseguenza e la causalità giuridica
Nel caso di danni a decorso occulto (altrimenti detti “lungolatenti”), il nesso tra il fatto lesivo (la trasfusione avvenuta nel 1969) e le conseguenze pregiudizievoli (i sintomi emersi nel 2009) non è sincronico ma diacronico. In buona sostanza, la malattia non insorge nel momento del contagio ma a distanza di anni dal fatto illecito. I giudici hanno accertato il nesso di causalità materiale tra l’emotrasfusione (la condotta illecita) e il contagio (l’evento dannoso) ma, ai fini risarcitori, occorre accertare la causalità giuridica, ossia occorre individuare le conseguenze pregiudizievoli riconducibili giuridicamente al fatto illecito (Cass. 23328/2019). In altre parole, «finché l’agente patogeno innescato dal fatto illecito non si manifesta, non si realizza alcun danno risarcibile in quanto solo il danno conseguenza costituisce il parametro di determinazione del danno ingiusto».
Per completezza espositiva si ricorda che, nella responsabilità civile, la causalità si declina duplicemente (art. 1223 c.c.):
- la causalità materiale (o causalità fondativa) lega la condotta all’evento di danno;
- la causalità giuridica lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili.
Danno risarcibile: non basta la lesione di un diritto
Il danno biologico patito dalla vittima va risarcito al suo verificarsi come danno-conseguenza.
Se venisse risarcito dal momento del contagio – come chiede il ricorrente – il danno biologico diventerebbe un danno in re ipsa, risarcito solo in base alla causalità materiale (ossia per il mero fatto illecito della trasfusione infetta da cui deriva il contagio). In tal modo opinando, si violerebbe il disposto dell’art. 1223 c.c., a mente del quale il risarcimento deve comprendere le conseguenze immediate e dirette dell’evento, sul piano della causalità giuridica.
La giurisprudenza è costante nell’affermare che il danno biologico non si esaurisca nella lesione dell’integrità psicofisica della persona, ma consista nelle “conseguenze del pregiudizio sul modo di essere della persona”. Per essere risarcibile, il danno da lesione della salute deve avere come effetto la compromissione di una (o più) delle capacità della vittima nello svolgimento delle attività quotidiane: “dal fare, all’essere, all’apparire”. Se la lesione della salute non provoca nessuna di queste conseguenze, non può considerarsi come un danno risarcibile (Cass. Ord. 7513/2018).
fonte altalex.com
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Aggressione di un cane, nessun testimone: per il risarcimento vale la prova presuntiva
Una donna e il suo cane vengono aggrediti da un molosso; il cagnolino ha la peggio e muore, mentre la padrona riporta delle ferite ad una mano. Nessuno assiste al fatto e la polizia interviene successivamente all’accaduto. La donna agisce in giudizio contro la proprietaria dell’altro cane al fine di ottenere il risarcimento del danno: in primo grado la domanda è rigettata, mentre è accolta in sede di gravame. Il giudice d’appello, infatti, pur in assenza di testimoni, ritiene provata l’aggressione in base ad un ragionamento presuntivo, ossia in base al fatto che l’animale sia stato sottoposto ad un controllo obbligatorio in seguito all’accaduto.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 23 febbraio 2023, n. 5661 (testo in calce), ribadisce che la decisione del giudice può essere fondata anche su un ragionamento presuntivo, purché adeguatamente motivato. Nel caso di specie, la padrona del molosso colpevole dell’aggressione è stata destinataria di un provvedimento – che non ha impugnato – con cui le è stato ordinato di sottoporre il cane ad un controllo obbligatorio (art. 86 Regolamento di Polizia veterinaria) e il giudice ha fondato la propria decisione su tale provvedimento. Il soggetto che ricorra in Cassazione lamentando la violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. (in materia di presunzioni) deve allegare che il giudice di merito abbia fondato il proprio ragionamento su presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Invece, la censura non può limitarsi alla diversa ricostruzione delle circostanze fattuali, senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma.
La vicenda
Una donna agisce in giudizio contro la proprietaria di un cane che ha aggredito il suo – cagionandone la morte – e le ha causato lesioni alla mano.
Nessuno assiste al fatto e la polizia interviene successivamente all’accaduto. In primo grado, la domanda attorea viene rigettata, mentre è accolta in sede di gravame, ove la convenuta è condannata al pagamento di circa settemila euro a titolo di risarcimento del danno.
Si giunge così in Cassazione.
Fatto ricostruito in base ad un ragionamento presuntivo
La sentenza gravata ha ricostruito l’accaduto sulla base di una testimonianza de relato (ossia non una testimonianza diretta del fatto) e su un provvedimento amministrativo. In particolare, si tratta del provvedimento emesso successivamente all’aggressione operata dal molosso verso il cagnolino dell’attrice, con cui viene ordinato alla proprietaria del primo di portare il cane ad un controllo. Infatti, il Regolamento di polizia veterinaria (art. 86 D.P.R. 320/1954) dispone che i cani e i gatti che abbiano morso persone siano sottoposti ad osservazione, anche domiciliare, qualora non presentino sintomi di rabbia.
In base al contenuto del suddetto provvedimento, la sentenza gravata ha ritenuto presuntivamente che la denunciata aggressione sia effettivamente avvenuta. La ricorrente non ha contestato efficacemente la decisione, non richiamando nel suo ricorso né l’art. 2729 c.c., in tema di presunzioni, né l’art. 2697 c.c. in tema di onere della prova (Cass. 9054/2022).
Al contrario, la censura mossa contro la sentenza impugnata è diretta ad ottenere una diversa ricostruzione delle circostanze di fatto o una diversa “inferenza probabilistica” rispetto a quella operata dal giudice di merito.
Le presunzioni semplici e la valenza probatoria
Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato (art. 2727 c.c.). Le presunzioni non stabilite dalla legge, ossia le presunzioni semplici (praesumptio hominis), sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale deve ammettere solo le presunzioni gravi, precise e concordanti (art. 2729 c. 1 c.c.).
La giurisprudenza (Cass. Ord. 9054/2022) ha così circoscritto i tre requisiti di cui sopra:
- la precisione è riferita al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica,
- la gravità riguarda il grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto,
- la concordanza – rilevante solo in caso di pluralità di elementi presuntivi – richiede che il fatto ignoto sia desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza.
Il giudice deve, in prima battuta, analizzare tutti gli elementi indiziari e scartare quelli irrilevanti e, successivamente, valutarli per verificare se siano concordanti e se la loro combinazione consenta una valida prova presuntiva. A tal proposito, si parla di “convergenza del molteplice”, che non è raggiungibile nel caso di un’analisi dei singoli elementi considerati separatamente (analisi atomistica).
Il soggetto che ricorra in Cassazione lamentando la violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. deve allegare che il giudice di merito abbia fondato il proprio ragionamento presuntivo su presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza o abbia fondato la presunzione su un fatto storico non grave, preciso e concordante. Invece, la censura non può limitarsi alla diversa ricostruzione delle circostanze fattuali, senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma.
Conclusioni
La ricorrente non ha contestato adeguatamente il ragionamento presuntivo posto alla base della sentenza gravata e non ha spiegato i motivi della violazione della disposizione in materia di presunzioni.
Pertanto, il ricorso viene rigettato e la padrona del molosso è condannata al pagamento delle spese di lite per l’importo di 2.500 euro oltre oneri e alla corresponsione di un importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Credits Altalex.com
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Danno da buca stradale: ammissibile la testimonianza sulla dinamica
In caso di sinistro provocato da una buca sul manto stradale, spetta al danneggiato provare il pregiudizio patito e il nesso causale tra le condizioni della strada e l’incidente. Tra i vari mezzi di prova, si può ricorrere alla testimonianza.
È possibile chiedere al teste se la buca non era visibile, formulando il capitolo di prova in negativo?
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 18 novembre 2021 n. 35146 (testo in calce), chiarisce importanti aspetti sulla prova testimoniale. Innanzitutto, precisa che, in mancanza di altre prove, non si può negare rilevanza alla prova testimoniale avente ad oggetto la ricostruzione della dinamica del sinistro. Inoltre, secondo gli ermellini, è errata e illogica l’opinione secondo la quale i capitoli di prova devono essere formulati solo in positivo e, quindi, sono inammissibili formulazioni in negativo. Infatti, non esiste una norma di legge o un principio desumibile in via interpretativa che impedisca di provare per testimoni la circostanza che un fatto non sia accaduto (o non esista). In altre parole, la circostanza che il capitolo di prova sia formulato in negativo non lo rende, per ciò solo, inammissibile. Pertanto, è possibile chiedere al teste se la buca sulla strada non fosse visibile senza che la domanda sia considerata valutativa. Spetta, poi, al giudice di merito valutare se la risposta del teste si basi su percezioni sensoriali oggettive o su mere supposizioni.
Inoltre, la Corte ricorda che il giudizio di merito con cui venga accolta (o rigettata) un’istanza istruttoria è insindacabile in sede di legittimità. Tuttavia, esistono due gruppi di fattispecie in cui si può derogare a tale regola, ossia a) quando giudice di merito, decidendo sulla prova, abbia violato una regola processuale e b) quando la valutazione della prova sia viziata sul piano della logica.
La vicenda
Una donna cadeva dal proprio motociclo a causa della presenza di varie buche, non visibili, presenti sulla strada. Ella pativa delle lesioni personali ed agiva in giudizio contro il Comune in qualità di custode e proprietario della strada, ai sensi dell’art. 2051 c.c. L’ente contestava la ricostruzione attorea e riteneva insussistente il nesso causale tra le condizioni del manto stradale e la caduta della donna. In primo e secondo grado, la domanda attorea veniva rigettata, confermando la mancata dimostrazione della connessione eziologica tra l’incidente e le condizioni della pubblica via. Si giunge così in Cassazione.
Rigetto di prove rilevanti e ammissibili: vizio di nullità della sentenza
La ricorrente lamenta un error in procedendo dal momento che il giudice del gravame non avrebbe ammesso prove rilevanti. La Suprema Corte sottolinea come la donna si dolga della circostanza che il giudice di merito abbia:
- dapprima rigettato prove ammissibili e rilevanti,
- e poi ritenuto la domanda non provata.
Ebbene, tale censura costituisce un vizio di nullità della sentenza per illogicità manifesta (Cass. Ord. 2904/2021; Cass. Ord. 17981/2020; Cass. Ord. 14155/2020). La ricorrente, invece, ha prospettato la violazione dell’art. 115 c.p.c. e non il vizio di nullità della pronuncia. L’errore nell’inquadramento della doglianza, però, non impedisce l’esame del motivo di ricorso. Infatti, nel caso in cui il ricorrente commetta un simile errore – ossia incorra nel vizio di sussunzione – il ricorso non è inammissibile se nel complesso della motivazione è individuabile in modo chiaro l’errore oggetto di censura (Cass. S.U. 17931/2013) come nel caso in esame.
Casi in cui è ammissibile il sindacato di legittimità
La Corte rileva come, di norma, il giudizio di merito con cui venga accolta (o rigettata) un’istanza istruttoria sia insindacabile in sede di legittimità atteso che si tratta di una scelta discrezionale riservata dal legislatore al giudice di merito (Cass. S.U. 1911/1963; Cass. 1253/1975; Cass. 1653/1971; Cass. 895/1970; Cass. 1501/1965).
Tale regola incontra dei temperamenti, infatti, esistono due gruppi di casi in cui il sindacato è ammissibile anche in Cassazione.
- Il primo gruppo riguarda l’ipotesi in cui il giudice di merito, decidendo sulla prova, abbia violato una regola processuale. Ad esempio, il sindacato in sede di legittimità è ammesso nel caso in cui il ricorrente alleghi che il giudice di merito abbia ritenuto vietata dalla legge una prova consentita, oppure abbia ammesso una prova vietata dalla legge (ad esempio, il divieto di provare per testi la proprietà delle cose pignorate da parte del terzo opponente, ex art. 621 c.p.c.)1.
- Il secondo gruppo riguarda i casi in cui il ricorrente ritenga che la valutazione della prova sia viziata sul piano della logica, in buona sostanza, la valutazione della prova, in relazione alle altre statuizioni, appare contraddittoria o arbitraria. Ciò accade “a) quando il giudice non prende nemmeno in considerazione le richieste istruttorie della parte, per poi rigettarne la domanda sul presupposto che non sia stata provata (Cass. 1039/1962); b) quando il giudice rigetti le richieste istruttorie senza motivazione alcuna, neanche implicita (Cass. 9120/2006); c) quando il giudice rigetti le uniche prove richieste reputandole superflue, senza però averne altre a disposizione (Cass. 11580/2005); d) quando il giudice rigetti le richieste istruttorie negandone l'”attitudine dimostrativa” ai fini del decidere, sebbene queste vertessero su circostanze decisive”.
Tutto ciò premesso, la Suprema Corte ritiene che la decisione impugnata sia incorsa in ambedue i vizi, ossia falsa applicazione della legge e vizio logico. Vediamo per quali ragioni.
Prova per testi: la domanda “negativa” è ammissibile
Tra i vari motivi di ricorso, la donna si duole del fatto che il giudice del gravame abbia ritenuto le prove testimoniali – tese a dimostrare il nesso di causalità tra le condizioni della strada e il danno – “generiche e valutative”. In particolare, il Tribunale aveva considerato inammissibile il seguente capitolo di prova:
- “vero che allo scattare del verde (semaforico) l’esponente riavviava la marcia, ma dopo pochi metri la ruota anteriore del motorino veniva intercettata da una buca non visibile sul manto stradale che causava lo sbandamento del mezzo e la successiva caduta a terra del motorino in prossimità della suddetta buca e della conducente stessa”.
Secondo il giudice di prime cure, la prova era inammissibile per via della formulazione negativa, della valutatività, dell’irrilevanza e della genericità.
Gli ermellini ricordano come non esista una norma di legge o un principio desumibile in via interpretativa che impedisca di provare per testimoni la circostanza che un fatto non sia accaduto o non esista (Cass. 19171/2019; Cass. 14854/2013; Cass. 384/2007; Cass. 5427/2002). L’opinione secondo cui il capitolo di prova testimoniale debba essere formulato in modo positivo è erronea in diritto e insostenibile sul piano logico.
Il teste può deporre su circostanze “cadenti sotto la comune percezione sensoria”
Nel caso in esame, la ricorrente aveva chiesto di provare per testi se fosse vero che la buca presente sulla strada “non era visibile”. La prova era stata ritenuta inammissibile anche perché formulata in negativo. Seguendo il percorso argomentativo del giudice di merito, quindi, la domanda da porre doveva essere declinata in positivo, ossia se la buca “era visibile”. In tal modo opinando, si fa dipendere l’ammissibilità della prova non da ciò che si intende provare ma dalla risposta attesa dal testimone. È di tutta evidenza come tale ricostruzione risulti illogica. Inoltre, è erroneo in punto di diritto considerare irrilevante – come ha fatto il giudice di merito – chiedere al testimone se abbia visto il ciclomotore cadere nella buca. Nella fattispecie oggetto di scrutinio, la danneggiata doveva dimostrare il nesso eziologico tra la cosa (la buca stradale) e il danno (le lesioni subite); pertanto, era fondamentale ricostruire la dinamica del sinistro. È parimenti illogico definire come generica e valutativa la richiesta di provare per testi che il ciclomotore sia caduto nella buca.
Un’istanza istruttoria è valutativa solo se sollecita il testimone a fornire un giudizio, tuttavia, «riferire se un oggetto reale fosse visibile o non visibile non è un giudizio, è una percezione sensoriale». La giurisprudenza è costante nel ritenere che i testi possono essere ammessi a deporre su circostanze che cadono “sotto la comune percezione sensoria”, mentre non possono esprimere giudizi di natura tecnica (Cass. 575/1962; Cass. 58/1969; Cass. 4120/1974).
Riassumendo, il testimone non può essere chiamato a fornire:
- un’interpretazione dei fatti, oppure
- una qualificazione dei fatti, oppure
- un apprezzamento tecnico o giuridico dei fatti.
Quanto sopra non significa che il testimone «non possa esprimere anche il convincimento che del fatto, e delle sue modalità, sia derivato al teste per sua stessa percezione» (Cass. 2393/1971; Cass. 5322/1980).
La buca non è visibile? La domanda postula una percezione, non una valutazione
In determinati casi, il testimone può esprimere dei giudizi se questi sono inscindibili dalla percezione del fatto storico. In applicazione di tale assunto, la Corte ha ritenuto ammissibile:
- in una controversia di lavoro, il capitolo di prova in cui si chiedeva al teste se le mansioni svolte dal lavoratore fossero (o meno) “semplici e ripetitive” (Cass. 5227/2001);
- in un giudizio di inibitoria di immissioni intollerabili, la richiesta al testimone se un rumore fosse udibile dall’interno di un appartamento con le finestre chiuse (Cass. 2166/2006);
- in un giudizio di risarcimento del danno per cose in custodia (ex art. 2051 c.c.), la domanda al testimone se un pavimento fosse scivoloso o meno (Cass. 9526/2009);
- in un giudizio di usucapione, chiedere al testimone se l’attore avesse “posseduto in modo esclusivo, pacifico e continuato” il bene oggetto della contesa (Cass. 22720/2014).
Torniamo alla fattispecie che ci occupa.
Chiedere se una buca non fosse visibile non costituisce né un apprezzamento tecnico-giuridico né un’interpretazione soggettiva. Si tratta del convincimento maturato dal teste in base alla sua percezione. Concludendo, «al testimone dunque, potrà sempre chiedersi se sia vero che una buca sulla strada non era visibile, salvo escludere la rilevanza della prova se questi, ad esempio, rispondesse che la buca non era visibile perché “così mi è parso”».
Conclusioni: i principi di diritto
La Suprema Corte, con una motivazione estremamente chiara e articolata, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello che dovrà attenersi ai seguenti principi di diritto:
A) «La circostanza che un capitolo di prova per testimoni sia formulato sotto forma di interrogazione negativa non costituisce, di per sé, causa di inammissibilità della richiesta istruttoria.
B) Nel giudizio avente ad oggetto una domanda di risarcimento del danno causato da un evento della circolazione stradale, in mancanza di altre e decisive prove, non può di norma negarsi rilevanza alla prova testimoniale intesa a ricostruire la dinamica dell’evento.
C) Chiedere ad un testimone se una cosa reale fosse visibile o non visibile è una domanda che non ha ad oggetto una “valutazione“, ed è dunque ammissibile; fermo restando il potere-dovere del Giudice di valutare, ex post, se la risposta fornita si basi su percezioni sensoriali oggettive o su mere supposizioni.
D) Costituisce vizio di nullità della sentenza la decisione con cui la domanda venga rigettata per detto di prova, dopo che erano state rigettate le istanze istruttorie formulate dall’attore ed intese a dimostrare il fatto costitutivo della pretesa».
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 35146/2021>> SCARICA IL PDF
Fonte: Altalex.com
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Responsabilità da attività sportiva: il rischio consentito esclude il risarcimento
I Giudici di Piazza Cavour, sul caso in esame, hanno chiarito che le lesioni provocate da un colpo involontario, durante la prova d’esame di arti marziali, non fanno sorgere il diritto al risarcimento.
La Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza 19 novembre 2021, n. 35602 (testo in calce) ha ribadito, come da consolidato orientamento, che l’esercizio di una attività sportiva agonistica comporta l’accettazione del rischio che da essa possa derivare un pregiudizio. Pertanto, i danni eventualmente sofferti dai partecipanti all’attività, nel caso in cui rientrino nell’alea normale dello sport praticato, ricadono sugli stessi ed agli organizzatori dell’evento, per sottrarsi da ogni responsabilità, basterà predisporre le normali cautele idonee a contenere il rischio per la specifica attività sportiva esercitata, in ossequio ad eventuali regolamenti sportivi.
Prima di passare alla disamina del suddetto provvedimento, è opportuno un breve cenno alla cd. responsabilità oggettiva dei gestori degli impianti sportivi e degli organizzatori degli eventi. Difatti, tali soggetti hanno l’obbligo di garantire la sicurezza degli atleti, adottando tutte le misure necessarie per evitare che si possano verificare eventuali danni agli stessi. Devono, altresì, garantire l’idoneità delle strutture, controllare le attrezzature ed effettuare la manutenzione, predisponendo, a tal fine, tutte le misure di sicurezza necessarie.
La vicenda
Tizio per mano di Caio subiva la frattura del setto nasale durante la prova di esame di arti marziali, presso la struttura ove praticava lo sport Ju Jitsu. Al fine di ottenere il ristoro di quanto patito, il primo conveniva in giudizio il secondo che, a sua volta, chiamava in causa la Compagnia assicurativa. La domanda di risarcimento veniva rigettata sia dal Giudice di prime cure e sia da quello del gravame, entrambi con la ratio decidendi che, nel caso di attività sportiva, chi vi partecipa accetta l’alea dei danni che possono derivare durante quella specifica pratica.
Pertanto, avverso la decisione di secondo grado Tizio promuoveva ricorso in Cassazione, lamentando, con un unico motivo di doglianza, la violazione dell’art. 2043 c.c. ed omesso esame di un fatto decisivo. In particolare, il ricorrente asseriva che “la regola applicata dal giudice di merito vale per gli incontri agonistici o per l’attività sportiva in senso stretto, mentre in questo caso, fatto la cui considerazione sarebbe stata omessa, l’incidente si era verificato durante un esame per il conseguimento di un livello superiore ed il ricorrente era stato chiamato a fare da sagoma umana, all’interno di un combattimento simulato”. Inoltre, lo stesso continuava, concludendo, che, nel caso de quo, non essendoci stata una vera e propria attività sportiva si è fuori dall’alveo di applicazione della regola che pone l’accettazione del rischio come criterio di esclusione del ristoro.
Orbene, secondo i Giudici di Piazza Cavour il motivo è infondato.
La decisione della Suprema Corte
Gli Ermellini evidenziano che, come da giurisprudenza risalente della Corte stessa, “l’attività agonistica implica l’accettazione del rischio ad essa inerente da parte di coloro che vi partecipano, per cui i danni da essi eventualmente sofferti rientranti nell’alea normale ricadono sugli stessi, onde è sufficiente che gli organizzatori, al fine di sottrarsi ad ogni responsabilità, abbiano predisposto le normali cautele atte a contenere il rischio nei limiti confacenti alla specifica attività sportiva, nel rispetto di eventuali regolamenti sportivi” (Cass. n. 1564 del 1997; Cass. n. 20597 del 2004; Cass. n. 2710 del 2005)”.
È d’uopo, secondo i Giudici di legittimità, sottolineare la presenza di alcune distinzioni. Nello specifico, se il danno è causato pur nel rispetto delle regole del gioco, in tal caso esso “si connota in termini di imprevedibilità in ragione dello scopo della norma violata: le regole del gioco infatti possono essere a presidio del gioco stesso, come a presidio della incolumità dell’avversario (in alcuni sport di contatto, il divieto di colpi bassi). In questi casi se lo sportivo procura danno, pur nel rispetto della regola di gioco, il danno può non porsi a carico del danneggiante per difetto di colpa”; se il danno è causato colpevolmente in violazione delle regole del gioco, in particolare di quelle che mirano a tutelare l’incolumità altrui: “in questo caso non si tratta di una scriminante, né tipica (consenso dell’avente diritto), né atipica, che altrimenti, l’attività sportiva sarebbe da considerare come illecita, ed invece è attività consentita e socialmente utile”.
Ciò detto, bisogna valutare la rilevanza della colpa ai fini dell’accertamento della responsabilità. Da questo punto di vista, infatti, non è sufficiente, in generale, sostenere che lo sportivo accetta il rischio e, dunque, non può pretendere, a priori, il risarcimento di alcun danno che derivi dall’attività sportiva. Difatti, sottolineano gli Ermellini, “l’atleta accetta il rischio normalmente connesso a quel tipo di sport, non ogni rischio derivante dalla condotta altrui, anche dolosa”.
Di conseguenza, va giustamente escluso dalla regola dell’accettazione del rischio il fatto doloso o dovuto a colpa particolarmente grave (Cass. n. 12012 del 2002). In quest’ultimo caso, dunque, l’atleta sarà considerato responsabile, civilmente e penalmente, e, pertanto, obbligato a risarcire lo sportivo danneggiato di tutti i danni patrimoniali e non, che sono conseguenza dell’atto posto in essere. Il dolo, invece, sussiste quando l’atto violento non è contemplato dal regolamento dello sport praticato e, quindi, i danni sono causati senza alcun rapporto di funzionalità con lo sport praticato. In altri termini, lo stesso si avrà, ogniqualvolta, gli atleti per il tramite dell’attività sportiva commettano volontariamente un danno all’avversario.
Nell’accertamento della colpa, tuttavia, ciò che potrà rilevare è la qualità dell’atleta. Infatti, spiega la Corte, allo sportivo professionista viene richiesta una maggiore attenzione rispetto al dilettante, il quale, ex adverso, “non ha le capacità tecniche di chi invece esercita l’attività sportiva su basi professionali e che meglio sa conformare la propria condotta alle regole di gioco”.
Da ultimo, viene precisato, altresì, che il principio consolidato vale sia per l’attività sportiva svolta in forma agonistica, sia che si tratti di un allenamento o di un esame sportivo. A nulla, pertanto, rileva la natura dell’attività svolta: “non v’è motivo di distinguere a seconda della “occasione” e delle finalità per cui l’attività sportiva è svolta (se un allenamento, una prova o una competizione), mentre una distinzione rilevante può farsi rispetto ai dilettanti, proprio perché la risarcibilità del danno, come si è detto, dipende dal tipo di difformità del comportamento rispetto alla regola cautelare (danno causato pur nel rispetto della regola del gioco; danno causato in violazione, ma con colpa; danno causato in violazione, ma con dolo)”.
Conclusioni
Al lume di quanto precede ed essendo, peraltro, il motivo basato unicamente sulla distinzione tra attività sportiva stricto sensu e prova di esame, secondo i Giudici del Palazzaccio, lo stesso non può essere accolto, in quanto le regole dell’una sono identiche per l’altra e la distinzione, essendo di mera finalità del medesimo sport, non incide in alcun modo sulla valutazione della colpa rispetto alla regola cautelare violata.
Pertanto, la Cassazione ha rigettato il ricorso.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 35602/2021 >> SCARICA IL PDF
Fonte: Altalex.com
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Onorevoli definiti ”fannulloni” da un giornale: è esercizio del diritto di critica
Un settimanale definisce “fannulloni” gli onorevoli italiani al Parlamento europeo indicando i dati da cui emerge che sono “i più assenti e meno produttivi”, pur essendo i meglio remunerati.
Dichiarazioni diffamatorie o rientranti nell’esercizio del diritto di critica?
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 26 aprile 2022, n. 12984 (testo in calce), ritiene che, nel caso di specie, operi l’esimente del diritto di critica, in quanto ricorrono i requisiti della pertinenza della notizia al pubblico interesse, della continenza delle espressioni usate e, a monte, della verità dei fatti riferiti.
In particolare, secondo i giudici di legittimità, l’epiteto utilizzato nel titolo del settimanale non eccede i limiti della continenza verbale, atteso che si limita a riassumere una valutazione negativa sullo scarso impegno degli onorevoli nell’attività parlamentare. Inoltre, in materia di responsabilità civile per diffamazione, secondo la giurisprudenza di legittimità, affinché possa operare la scriminante dell’esercizio del diritto di critica, è necessario che “il fatto presupposto ed oggetto della critica corrisponda a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze soggettive”.
La vicenda
Un noto settimanale definiva gli onorevoli italiani al Parlamento UE come “eurofannulloni” e, nel sottotitolo, riportava che i parlamentari di casa nostra erano “i più assenti e meno produttivi”; infine, sulla copertina, era raffigurato un noto esponente politico insieme ad altri deputati. Il politico in questione agiva in giudizio contro la società editrice del settimanale e contro il direttore responsabile del giornale al fine di ottenere il risarcimento del danno per il contenuto asseritamente diffamatorio della copertina. In primo grado, il tribunale accoglieva la domanda dell’attore, condannava i convenuti al pagamento di 60 mila euro e disponeva la pubblicazione dell’estratto della sentenza su alcuni quotidiani.
La Corte d’Appello, invece, riformava la sentenza, rigettava la pretesa del politico e lo condannava alla restituzione degli importi ricevuti, oltre al pagamento delle spese di lite del doppio grado di giudizio. Secondo i giudici, il titolo del settimanale, il sottotitolo e la fotografia rappresentavano la sintesi di una critica politica al comportamento dei parlamenti italiani eletti al Parlamento europeo. Infatti, alla luce dei dati acquisiti, gli onorevoli del nostro Paese risultavano i meno presenti e i meno propositivi, nonostante siano i meglio remunerati. Inoltre, emergeva che molti di loro abbandonavano il seggio prima della scadenza del mandato, denotando in tal guisa poca considerazione per l’incarico ricevuto dagli elettori. I giudici del gravame riconoscevano che la critica fosse rivolta segnatamente nei confronti dell’onorevole ritratto in copertina, ma ne escludevano la portata diffamatoria.
Come vedremo, la decisione impugnata viene confermata anche in Cassazione.
L’epiteto “fannullone” non travalica il limite della continenza
La sentenza gravata sottolinea come l’espressione “fannullone”, dal punto di vista letterale, significhi “non aver voglia di far nulla”, pertanto, essa non supera il limite della continenza verbale. Inoltre, la notizia è pertinente all’interesse dell’opinione pubblica “alla conoscenza non tanto del fatto oggetto di critica, ma di quell’interpretazione del fatto”. I lettori hanno interesse a conoscere la valutazione relativa all’operato dell’onorevole nel suo ruolo di parlamentare europeo.
La Corte d’appello prosegue sottolineando come la critica operata nei confronti del deputato riguardi la percentuale delle presenze e la sua partecipazione effettiva all’attività svolta dal Parlamento UE. A tal riguardo, era emerso che durante i 18 mesi di mandato, in cui non ricopriva altri incarichi istituzionali, egli aveva effettuato solo quattro interventi e non aveva presentato nessuna relazione. Inoltre, in merito alla critica sulla scarsa considerazione dell’incarico conferito dagli elettori, i convenuti hanno dimostrato la veridicità del fatto posto a fondamento di tale affermazione. L’onorevole, infatti, aveva rinunciato all’incarico a favore di un altro eletto e successivamente, dopo che non era stato rieletto senatore, aveva revocato la rinuncia, manifestando la volontà di subentrare ad un altro rinunciante; in tale contesto, aveva aperto un contenzioso con un altro candidato, all’esito del quale era stata annullata la sua proclamazione a componente del Parlamento europeo.
In conclusione, secondo la Corte d’Appello, sussiste “l’esimente del diritto di critica, poiché i fatti costituenti il presupposto e l’oggetto della critica, che ha necessariamente carattere soggettivo rispetto ai fatti stessi, corrispond(ono) a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa”.
Il fatto presupposto della critica deve corrispondere a verità
La Suprema Corte ritiene che il giudice del gravame abbia correttamente inquadrato l’attività giornalistica all’interno della critica politica. Com’è noto, tale forma di critica è caratterizzata da un linguaggio più incisivo e pungente rispetto al diritto di cronaca, inoltre, il diritto di critica può consistere in valutazioni soggettive dei temi trattati. L’esercizio del diritto di critica rappresenta un’esimente (articolo 51 codice penale), si tratta di una causa di giustificazione, vale a dire una situazione in presenza della quale un fatto che altrimenti costituirebbe reato – in questo caso, diffamazione – non è tale perché la legge lo impone o lo consente. La scriminante in parola opera entro dei limiti:
- la pertinenza della notizia al pubblico interesse,
- la continenza delle espressioni usate,
- e, a monte, la verità dei fatti riferiti.
In materia di responsabilità civile per diffamazione, la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 25420/2017) ha affermato che il diritto di critica si sostanzia nell’esprimere un giudizio soggettivo rispetto ai fatti e non nella mera narrazione degli stessi. Tuttavia, affinché possa operare la scriminante dell’esercizio di tale diritto, è necessario che “il fatto presupposto ed oggetto della critica corrisponda a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze soggettive”.
Per completezza espositiva, si ricorda che la giurisprudenza della Corte EDU in subiecta materia è solita operare un distinguo tra le dichiarazioni relative a fatti – da una parte – e le dichiarazioni che contengano un giudizio di valore – dall’altra. Il giudizio di valore deve sempre contenere un nucleo fattuale che sia veritiero e che sia oggettivamente sufficiente per permettere di trarvi il giudizio, “versandosi, altrimenti, in affermazione offensiva eccessiva, non scriminabile perché assolutamente priva di fondamento o di concreti riferimenti fattuali” (Cass., Sez. V, 7340/2019).
Conclusioni: opera l’esimente del diritto di critica
La Suprema Corte rigetta il ricorso dell’onorevole, conferma la sentenza gravata e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite. Secondo gli ermellini, nel caso di specie, opera la scriminante dell’esercizio del diritto di critica. Infatti, l’argomento è pertinente con l’interesse pubblico, dal momento che rientra nell’interesse sociale il tema dell’impegno profuso dagli europarlamentari italiani, con riguardo a figure che godono di particolare notorietà nel settore politico (come quella del ricorrente). Inoltre, l’espressione impiegata nel titolo del giornale (ossia “fannulloni”) non eccede i limiti della continenza, atteso che “sintetizza un giudizio negativo di scarso impegno nell’attività parlamentare, senza trasmodare in epiteti gratuitamente offensivi”.
In particolare, secondo la Corte, l’epiteto contestato dal ricorrente è stato usato:
- “sul rilievo di una presenza comunque inferiore alla media degli Europarlamentari degli altri paesi e sulla considerazione della ridotta produttività in punto di interventi (quattro in diciotto mesi) e di relazioni (nessuna): si tratta, all’evidenza, di elementi che, seppure non univocamente sintomatici di uno scarso impegno, si prestano tuttavia ad essere valutati in tali termini e possono giustificare una critica, da parte del giornalista”.
Infine, la circostanza che il giornale facesse riferimento al fatto che i parlamentari si dessero alla fuga verso incarichi economicamente più vantaggiosi, così sottraendosi alle proprie prerogative parlamentari, rientra nel diritto di critica politica. L’articolo del settimanale non attribuiva espressamente al ricorrente nessuna “fuga anticipata”, ma illustrava la complessa vicenda che lo aveva visto “dapprima, rinunciare al seggio e, poi, insistere per la sua attribuzione, instaurando un complesso contenzioso all’esito del quale era rimasto soccombente”.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 12984/2022 >> SCARICA IL PDF
fonte altalex.com
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Raccolta di opere in uno ”studio metodologico”: violazione del diritto d’autore?
La riproduzione di opere d’arte, allorché sia integrale e non limitata a particolari delle opere medesime non costituisce alcuna delle ipotesi di utilizzazione libera; per godere del regime delle libere utilizzazioni, inoltre, detta riproduzione deve essere strumentale agli scopi di critica e discussione, oltre che al fine meramente illustrativo correlato ad attività di insegnamento e di ricerca scientifica dell’utilizzatore e non deve porsi in concorrenza con l’utilizzazione economica dell’opera che compete al titolare del diritto: diritto che ricomprende non solo quello di operare la riproduzione di copie fisicamente identiche all’originale, ma qualunque altro tipo di replicazione dell’opera che sia in grado d’inserirsi nel mercato della riproduzione, e quindi anche la riproduzione fotografica in scala.
Sono questi i principi enunciati dalla Prima Sezione Civile della Cassazione nell’ordinanza 1° dicembre 2021-8 febbraio 2022, n. 4038 (testo in calce) che fornisce importanti chiarimenti in merito al caso in cui la raccolta di opere di un artista in uno studio metodologico possa configurare violazione del diritto d’autore.
Il caso
La vicenda trae origine dai diversi contenziosi azionati dagli eredi di un rinomato pittore italiano contro l’omonima Fondazione a cui era stato conferito il compito di conservare e tutelare l’opera del defunto artista. L’ente che nel tempo aveva costituito un importante archivio delle opere dell’autore poteva rilasciare degli experties, ma non gli era permesso né di utilizzare il nome dell’artista nella sua denominazione né di presentarsi come unico soggetto autorizzato a certificare l’autenticità delle opere ad esso attribuite. La Fondazione aveva successivamente pubblicato, con la collaborazione di un’Università, un’opera in sei volumi denominata «Studio metodologico» avente ad oggetto la catalogazione informatica dei dati relativi alle opere del pittore presenti nell’archivio dell’ente. Gli eredi dell’artista hanno quindi nuovamente agito in giudizio contro la Fondazione, l’Università ed altri soggetti non solo per denunziare la violazione dei diritti d’autore sulle opere riprodotte, ma anche per contestare il perdurante illecito sfruttamento del nome dell’autore e l’usurpazione delle prerogative derivanti dai diritti morali sulle opere stesse.
La Corte di appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado che aveva respinto le domande proposte dagli eredi, ha dichiarato illegittimo l’uso da parte della Fondazione del nome dell’autore, in ordine al quale è stata pronunciata anche l’inibitoria, ed ha condannato l’ente al risarcimento del danno non patrimoniale. Il Giudice d’appello ha osservato che la pubblicazione dello «Studio metodologico» doveva ritenersi legittima, avendo ipotizzato che, in tema di opere figurative, la disposizione di cui all’art. 70 della Legge. 22 aprile 1941, n. 633 (Legge sul diritto d’autore) si risolve nel divieto di riproduzione per intero dell’opera dell’artista. È stato inoltre accertato che quanto realizzato dalla Fondazione consisteva in un’opera informatica e non di critica artistica. Si trattava di uno studio di catalogazione informatica non avente finalità di consentire la fruizione artistica della riproduzione delle opere che veniva attuata attraverso la creazione di copie di piccole dimensioni. Secondo quanto sostenuto dalla Corte di merito, le finalità di ricerca dello studio risultavano evidenti anche in ragione della partecipazione alla catalogazione informatica da parte di una Università. Il Giudice d’appello ha dunque negato che l’opera fosse stata realizzata per finalità lucrative e quindi che, nel caso di specie, non ci si trovasse di fronte ad uno sfruttamento economico delle opere. Per quanto concerne poi l’invio da parte della Fondazione dello «Studio metodologico» a gallerie o case d’asta, librerie d’arte e istituzioni pubbliche, tale condotta non avrebbe costituito sfruttamento economico delle opere e non giustificava la conclusione che esso fosse stato posto in essere per finalità commerciali. Per il Giudice d’appello era decisivo che gli operatori del mercato dell’arte avessero utilizzato la catalogazione come referente della genuinità delle singole opere dell’autore poiché tale condotta integrava un uso per finalità commerciale imputabile a terzi e non ai convenuti. La Corte d’appello ha infine accertato che era stato comprovato l’uso surrettizio da parte della Fondazione del nome dell’autore in violazione della inibitoria emanata nell’ambito di un diverso giudizio: è stata pertanto ritenuta necessaria la pronuncia di una nuova inibitoria e la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale correlato all’uso reiterato del nome posto in essere dopo la pubblicazione delle sentenze.
Gli eredi dell’artista hanno proposto ricorso per cassazione, contestando in particolare la violazione e l’errata applicazione di quanto disposto dall’art. 70 del Legge n. 633/1941, oltre che degli artt. 12, 13, 17 e 18, comma 3. I ricorrenti hanno lamentato che il Giudice d’appello avrebbe applicato allo «Studio metodologico» ed ai cinque volumi allegati la disposizione sulla libera utilizzazione delle opere al di fuori dei presupposti di legge, errando pertanto nel ritenere non violate le facoltà di utilizzazione esclusiva di riproduzione, pubblicazione in raccolta e distribuzione.
I ricorrenti hanno altresì eccepito che lo «Studio metodologico» era stato utilizzato dalla Fondazione per il perseguimento di uno scopo commerciale vista la tipologia di soggetti destinatari dell’opera.
La Fondazione ha a sua volta resistito con controricorso contenente impugnazione incidentale, avendo contestato la violazione e l’errata applicazione dell’art. 2056 c.c. e dell’art. 1226 c.c. in relazione alla condanna al risarcimento del danno non patrimoniale. La controricorrente ha eccepito che la sentenza del Giudice di appello non conteneva l’enunciazione del processo logico e valutativo posto a fondamento della pronuncia risarcitoria concernente il danno arrecato al nome dell’artista.
Fonte Altalex.com
continua
Il danno da morte del feto è danno da perdita del rapporto parentale
La questione
Si discute se la perdita del frutto del concepimento sia un danno avulso dalla sfera dell’art. 2059 cc.
La decisione
Il danno da morte del feto è un vero e proprio danno da perdita del rapporto parentale. Anche la tutela del concepito ha fondamento costituzionale, rilevando in tale prospettiva non solo la previsione della tutela della maternità, sancita dall’art. 31, secondo comma, Cost., ma, più in generale, quanto stabilito dall’art. 2 Cost., norma “che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica de! concepito” (Corte costituzionale n. 27 del 1975).
Sono legittimati a richiedere il danno i componenti del consorzio familiare, richiesta che trova fondamento negli artt. 2043 e 2059 cod. civ. in relazione agli artt. 2, 29 e 30 Cost., nonché – ai sensi della norma costituzionale interposta costituita dall’art. 8 CEDU, che dà rilievo al diritto alla protezione della vita privata e familiare – all’art. 117, comma 1, Cost. (in tal senso, funditus, Cass. 27 marzo 2019, n. 8442), ma ha anche chiarito che pure tale tipo di pregiudizio rileva nella sua duplice, e non sovrapponibile dimensione morfologica “della della sofferenza interiore eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore, e quella, ulteriore e diversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico- relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l’ha subita” (Cass. sent. 11 novembre 2019, n. 28989, approdo definitivo di un lungo e tormentato percorso interpretativo che ha finalmente colto la reale fenomenologia del danno alla persona, come confermato dallo stesso, esplicito dettato legislativo di cui al novellato art. 138 C.d.a., oltre che dalla cristallina sentenza del Giudice delle leggi n. 235/2014 che, nel pronunciarsi sulla conformità a Costituzione del successivo art. 139, e discorrendo di risarcibilità del danno morale al punto 10.1. della sentenza, ha definitivamente chiarito la differenza strutturale tra qualificazione della fattispecie e quantificazione del danno).
In tema di danno da perdita del rapporto parentale, valorizzando appieno l’aspetto della sofferenza interiore patita dai genitori (Cass. 8887/2020; Cass. 901/2018, 7513/2018, 2788/2019, 25988/2019), quest’ultima va allegata e poi provata anche solo a mezzo di presunzioni semplici, costituisce assai frequentemente l’aspetto più significativo del danno de quo.
Esiste, difatti, una radicale differenza tra il danno per la perdita del rapporto parentale e quello per la sua compromissione dovuta a macrolesione del congiunto rimasto in vita – caso nel quale è la vita di relazione a subire profonde modificazioni
in pejus. Una differenziazione che rileva da un punto di vista qualitativo/ quantitativo del risarcimento se è vero che, come insegna la più recente ed avveduta scienza psicologica, e contrariamente alle originarie teorie sull’elaborazione del lutto (la cassazione non lo cita, ma si riferisce a Freud, secondo il quale, attraverso il lavoro del lutto possiamo liberarci dal dolore della perdita), quella della cosiddetta elaborazione del lutto è un’idea fallace, poiché camminiamo nel mondo sempre circondati dalle assenze che hanno segnato la nostra vita e che continuano ad essere presenti tra noi; il dolore del lutto non ci libera da queste assenze, ma ci permette di continuare a vivere e di resistere alla tentazione di scomparire insieme a ciò che abbiamo perduto”. Il vero danno, nella perdita del rapporto parentale, è la sofferenza, non la relazione. E’ il dolore, non la vita, che cambia, se la vita è destinata, sì, a cambiare, ma, in qualche modo, sopravvivendo a se stessi nel mondo.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 26301/2021 >> SCARICA IL PDF
Fonte: Altalex.com
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Il privato può chiedere al giudice ordinario la condanna della Pa ad un ”facere”
Il privato può chiedere al giudice ordinario la condanna della P.A. ad un “facere”. Infatti, la domanda non investe scelte ed atti autoritativi dell’amministrazione, ma attività soggetta al rispetto del principio del “neminem laedere”.
Questo è quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione, sezione VI civile, con l’ordinanza 23 settembre 2021, n. 25843 (testo in calce).
La questione
Si discute se un cittadino possa adire il giudice ordinario non solo per chiedere la condanna della pubblica amministrazione al risarcimento di un danno causato dal difetto di manutenzione dell’opera pubblica, ma altresì per richiedere la condanna ad un “facere” della stessa pubblica amministrazione, a prescindere dalla richiesta del risarcimento del danno.
La decisione
Viene qui riaffermato un principio già esposto dalle Sezioni Unite (Cassazione civile Sez. Un. 03/02/2016 n. 2052; Cassazione civile Sez. Un. 04/10/2012 n. 16848; Cassazione civile Sez. Un. 21/06/2012 n. 10285; Cassazione civile Sez. Un. 14/03/2011 n. 5926; Cassazione civile Sez. Un. 21/11/2011 n. 24410; Cassazione civile Sez. Un. 22/12/2010 n. 25982; Cassazione civile Sez. Un. 13/12/2007 n. 26108; Cassazione civile Sez. Un. 21/04/2006 n. 9342; Cassazione civile Sez. Un. 14/01/2005 n. 599; Cassazione civile Sez. Un. 28/11/2005 n. 250361; Cassazione civile Sez. III 04/04/2019 n. 9318).
La pubblica amministrazione gode, sì, di un potere discrezionale nella scelta delle opere da eseguire, non censurabile dal giudice ordinario, nella sistemazione e manutenzione di aree o beni pubblici (delle regole tecniche, ovvero) dei comuni canoni di diligenza e prudenza. Tuttavia, l’inosservanza da parte della P.A., nella gestione e manutenzione dei beni che ad essa appartengono, delle regole tecniche, ovvero dei canoni di diligenza e prudenza, può essere denunciata dal privato dinanzi al giudice ordinario non solo ove la domanda sia volta a conseguire la condanna della P.A. al risarcimento del danno patrimoniale, ma anche ove sia volta a conseguire la condanna della stessa ad un “facere”, giacché la domanda non investe scelte ed atti autoritativi dell’amministrazione, ma attività soggetta al rispetto del principio del “neminem laedere”.
Non è di ostacolo l’art. 34 del decreto legislativo 31/03/1998 n. 80, come sostituito dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205 (“sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati in materia urbanistica ed edilizia”), che, appunto, devolve al giudice amministrativo le controversie in materia di urbanistica ed edilizia – giacché, a seguito della sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale2, tale giurisdizione esclusiva non è estensibile alle controversie nelle quali la P.A. non eserciti alcun potere autoritativo finalizzato al perseguimento di interessi pubblici alla cui tutela sia preposta.
Ove la natura di manutenzione non sia ordinaria, bensì straordinaria (e quindi il carattere di straordinarietà amplierebbe il c.d. potere discrezionale della P.A. nella scelta delle opere da eseguire), sia pure rilevante per impegno di costi e di opere, ebbene, questa peculiarità non fa, tuttavia, venir meno la funzionalità dell’intervento alla gestione e conservazione del bene appartenente alla pubblica amministrazione, allo scopo di rispettare il precetto del “neminem ledere”. La rilevanza ed imponenza della manutenzione, della quale il privato lamenta l’omissione a tutela del proprio diritto, non vale a spostare la fattispecie nell’orbita dell’esercizio del potere autoritativo, posto che è sempre in questione il rispetto del precetto del “neminem ledere”.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 25843/2021 >> SCARICA IL PDF
1 La natura pubblica del bene fonte della situazione di danno (nella specie strada comunale) può comportare la devoluzione della controversia alla giurisdizione del g.a. solo se sia in predicato la destinazione del bene ad uso diverso da quello normativamente stabilito o il regime della sua circolazione giuridica; quando invece il bene viene in evidenza solo per la sua condizione causale del danno, nell’ambito del rapporto proprietario che su di esso ha la p.a., la giurisdizione del g.o. non può essere negata.
2 A seguito della sentenza della Corte costituzionale 204/04, è stata dichiarata la parziale legittimità costituzionale dell’art. 34 d.lg. 80/1998 (nel testo novellato dall’art. 7 legge 205/00), nella parte in cui devolveva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie, in materia urbanistica ed edilizia, nelle quali vi sia stato, non già un atto o un provvedimento dell’amministrazione, ma un comportamento di questa non altrimenti qualificato.
fonte altalex.com

Danno morale anche a chi non è offeso dal reato
Compete il risarcimento a colui che, pur non essendo persona offesa dal reato, ha comunque subito un danno derivante dalla ingiusta condotta (Cass. civ., ordinanza n. 14453/2021 – testo in calce).
La questione
Per essere risarciti dal danno morale, è necessario rivestire la qualità simultanea di persona offesa dal reato e soggetto danneggiato, oppure rileva soltanto essere soggetto danneggiato?
La decisione
La importante decisione trae origine da un episodio, purtroppo frequente, in cui un paziente si recò presso la guardia medica, che si oppose alla richiesta di visita domiciliare, nonostante i riferiti sintomi di un malore che, successivamente, risultò essere un infarto al miocardio, risoltosi fortunatamente bene.
Va distinta la persona offesa dal reato dal soggetto danneggiato dallo stesso. La persona offesa è esclusivamente il soggetto titolare del bene giuridico protetto (o dell’interesse tutelato), ex art. 90 c.p.p.. Nell’ipotesi di omissione di atti d’ufficio, ex art. 328 c.p., il bene giuridico tutelato è esclusivamente il buon andamento della pubblica amministrazione e, segnatamente, il suo regolare funzionamento nella fase di realizzazione dei suoi compiti istituzionali, per cui la persona offesa è esclusivamente la P.A. (ex multis Cass. Pen. 29/10/2019, n. 47114).
Il soggetto danneggiato dal reato è, invece, ogni soggetto che dal reato nel caso concreto abbia subito un danno. Ne consegue che l’individuazione della persona offesa non esaurisce l’individuazione di ogni possibile danneggiato civile dal reato, dovendo quest’ultimo essere accertato con riferimento al caso concreto (cfr Cass. 23/04/1999, n. 4040).
Né vi è ragione logica o giuridica per negare il risarcimento del danno morale al danneggiato che non sia anche persona offesa dal reato, non essendo tale limitazione giustificata:
- dall’art. 185, comma secondo, cod. pen. che, nel prevedere che «ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui», postula solo l’esistenza di un nesso causale tra il reato e il danno, patrimoniale o non patrímoniale che sia, ma non individua i soggetti danneggiati risarcibili;
- dall’art. 74 cod. proc. pen. che espressamente riconosce ad ogni «soggetto al quale il reato ha recato danno» (dunque non solo alla persona offesa), il diritto di esercitare l’azione civile nel processo penale (attraverso la costituzione di parte civile) «per le restítuzioni e per il risarcimento del danno dì cui all’articolo 185 del codice penale» (il «danno di cui all’art. 185 cod. pen.» è anche quello non patrimoniale) (cfr Cass. n. 4040 del 1999).
Deriva dalle superiori considerazioni che sostenere che il malato non è persona offesa dal reato di cui all’art. 328, comma primo, cod. pen. è tecnicamente corretto, ma privo di implicazioni pratiche, dal momento che il fatto che non sia persona offesa non esclude comunque che colui che è stato danneggiato dal reato possa richiedere il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrímoniali.
Le Sezioni Unite, con arresti dell’11/11/2008, nn. 26972, 26793, 26794, 26795, indicarono che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi «previsti dalla legge», e cioè, secondo un’ínterpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.:
- quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorché privo di rílevanza costituzionale;
- quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, nei casi suindicati, rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni);
- quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice.
Allora, la risarcíbilità del danno non patrimoniale va ricondotta alla prima delle tre ipotesi sopra indicate (lett. a: danno derivante da fatto illecito astrattamente configurabile come reato), con la conseguenza che la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale.
Quindi, si rivela insufficiente giustificare il diniego della risarcibilità del danno non patrimoniale da fatto-reato constatando che esso non abbia leso l’integrità psicofisica del malato, occorrendo anche valutare se comunque esso abbia leso interessi della persona tutelati dall’ordinamento diversi da quello all’integrità psico-fisica, ancorché privi di rílevanza costituzionale (quale ben può essere quello al corretto adempimento dei compiti istituzionali affidati al funzionario pubblico ove posti a diretto servizio dell’utenza).
Si precisi, per completezza, che l’evento di danno (ossia la lesione dell’interesse della persona) deve essere correlabile, secondo nesso di causalità materiale, al fatto illecito e il danno non patrimoniale non è in re ipsa, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento (danno-evento), ma con le conseguenze di tale lesione (danno-conseguenza), sicché la sussistenza di siffatte conseguenze pregiudizievoli e il loro collegamento all’evento dannoso devono comunque essere oggetto dì allegazione e prova (anche presuntiva).
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 14453/2021>> SCARICA IL PDF
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Ilva condannata a risarcire ai proprietari degli immobili il danno da deprezzamento
Secondo quanto previsto dalla Cassazione Civile, Sez. III, sentenza 2 luglio 2021, n. 18810 (testo in calce) l’ILVA deve risarcire ai proprietari degli immobili il danno da deprezzamento a causa dell’inquinamento.
Il danno è stato valutato equitativamente nella misura del 20% del valore dell’immobile.
La questione
Si discute se l’inquinamento dell’ILVA comprima il diritto di proprietà, inteso come «diritto a godere in modo pieno ed esclusivo di un bene», a causa della perenne esposizione degli immobili al fenomeno di immissioni di polveri minerali.
La decisione
L’iter motivazionale non è agevole. La Suprema Corte parte da un preambolo e si sofferma sulla distinzione, ex artt. 1223 e 2056 cod. civ., tra fatto illecito, contrattuale o extracontrattuale, produttivo del danno e il danno stesso, da identificare nelle conseguenze pregiudizievoli di quel fatto, nella loro duplice possibile fenomenologia di «danno emergente» (danno «interno», che incide sul patrimonio già esistente del soggetto) e di «lucro cessante» (che, di quel patrimonio, è proiezione dinamica ed esterna), come tale apprezzabile sia in ambito patrimoniale che non patrimoniale (v. Cass. 17/01/2018, n. 901, in motivazione, pag. 27): perdita-danno emergente-sofferenza interiore, da un lato, e, dall’altro, mancato guadagno-lucro cessante-danno alla persona nei suoi aspetti esteriori/relazionali.
Spiega la Corte che il danno-conseguenza non è in re ipsa, ma deve essere allegato e provato. Questo il passaggio decisivo: rammenta un suo precedente (Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 576), ove, in estrema sintesi, affermava che se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria. Tuttavia, nel caso di specie, vi è obbligazione risarcitoria, perché la compromissione dominicale è (testuale) “indubitabilmente” (n.d.r.: quindi, in re ipsa) un danno conseguenza di natura patrimoniale, in quanto suscettibile di valutazione economica, a causa dalla limitazione delle possibilità di godimento degli immobili, in ragione, della limitazione delle possibilità di arieggiamento degli appartamenti, stante il penetrare in essi di polveri.
In tal senso la giurisprudenza della Cassazione ha già più volte riconosciuto che la compressione o la limitazione del diritto di proprietà o altro diritto reale, che siano causate dall’altrui fatto dannoso, sono suscettibili di valutazione economica non soltanto se ne derivi la necessità di una spesa ripristinatoria (danno emergente) o di perdite dei frutti della cosa (lucro cessante), ma anche se la compressione e la limitazione del godimento siano sopportate dal titolare con suo personale disagio o sacrificio (Cass. 17/12/2019, n. 33439; Cass. 26/09/2018, n. 22824; Cass. 27/07/1988, n. 4779; Cass. 29/11/2005, n. 25921). Senonchè, nel caso in questione, non viene in rilievo neppure l’aspetto soggettivo delle sofferenze (o disagi) interiormente vissute dai proprietari degli immobili in ragione delle limitazioni descritte, quanto piuttosto proprio la perdita delle oggettive potenzialità di godimento che, in mancanze delle immissioni illecite, gli immobili stessi per loro stessa destinazione sarebbero in grado di offrire. Esula, dunque, il profilo della configurabilità di un danno di carattere non patrimoniale conseguente all’illecito per lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione ed al diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane. Per tali ragioni, in definitiva, non si violano i principi in materia di responsabilità extracontrattuale se si riconosce il diritto al risarcimento in mancanza di prova della sussistenza di un effettivo danno alla salute o di un danno materiale o da deprezzamento commerciale, danni, questi ultimi, mai chiesti dai proprietari dell’edificio.
Quindi, concludendo, la mancanza di un danno non patrimoniale conseguente alle immissioni intollerabili non esclude la configurabilità di un danno risarcibile di natura patrimoniale come conseguenza dell’illecito costituito dalle immissioni medesime; dall’altro, l’esclusa esistenza di danni materiali da deterioramento di strutture dell’edificio o di un danno da deprezzamento commerciale dell’immobile non comporta anche l’esclusione della possibilità di apprezzare un danno patrimoniale della diversa specie predetta (ossia da perdita di talune significative facoltà di godimento), economicamente valutabile, se non nel loro valore di scambio, quanto meno sul piano del valore d’uso.
La Corte supera anche la teoria del c.d. “preuso”, secondo la quale le polveri presenti oggi sono le stesse che si depositavano sui balconi trent’anni fa, di talchè, ciò che è stato considerato “tollerabile” per decenni non possa divenire all’improvviso “intollerabile”: invero, si è in presenza di un’attività illegittima di fronte alla quale non ha ragion d’essere l’imposizione di un sacrificio, ancorché minimo, all’altrui diritto di proprietà o di godimento, e non sono quindi applicabili i criteri dettati dall’art. 844 c.c., in tema di normale tollerabilità (Cass. 03/09/2018, n. 21554; 13/03/2007, n. 5844; 17281/2005; 1156/1995; 7411/1992).
CASSAZIONE CIVILE. SENTENZA N. 18810/2021 >> SCARICA IL PDF
fonte altalex.com
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