
Medico risponde anche della mancata prevenzione della malattia
È configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito dal paziente qualora, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi.
Laddove il danno dedotto sia costituito anche dall’evento morte sopraggiunto in corso di causa ed oggetto della domanda in quanto riconducibile al medesimo illecito, il giudice di merito, dopo aver provveduto alla esatta individuazione del petitum, dovrà applicare la regola della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non al nesso di causalità fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite.
È questo il principio di diritto elaborato dalla Suprema Corte nella sentenza 27 marzo 2019, n. 8461, che ha accolto il ricorso promosso dai figli di una signora deceduta in corso di causa a seguito di tumore maligno diagnosticato tardivamente.
Nello specifico, la donna, dopo una prima ecografia alla mammella effettuata in uno studio privato con diagnosi che escludeva un tumore maligno, a distanza di pochi giorni si era recata presso la Ausl di zona, richiedendo un controllo senologico.
In quell’occasione, il medico confermava la natura “benigna” della patologia, suggerendo alla paziente un ulteriore controllo a distanza di sei mesi.
Tale successivo controllo rivelava però la natura maligna ed aggressiva della patologia, con necessaria asportazione radicale della mammella, intervento al quale seguivano cure chemioterapiche invasive e due ulteriori interventi di chirurgia plastica.
Mentre il giudice di primo grado aveva respinto la domanda risarcitoria ritenendo le prove non sufficienti a dimostrare il nesso tra la negligenza del medico e la patologia e il successivo decesso, in appello il medico e la asl venivano condannati al risarcimento del danno patrimoniale corrispondente al reddito medio che la donna avrebbe garantito per il periodo di sopravvivenza di cui avrebbe potuto godere in caso di tempestiva diagnosi.
La vertenza è così approdata in Cassazione, dove gli eredi hanno contestato la decisione per non aver applicato correttamente i principi civilistici in materia di nesso di causalità: in particolare, hanno lamentato che la motivazione fosse riferita non alle conseguenze della condotta negligente costituita dall’evento morte, ma soltanto all’ipotetica maggiore durata della vita di cui la donna avrebbe potuto godere, fondando tale statuizione su una erronea e lacunosa interpretazione della CTU rinnovata in grado d’appello. In particolare, il giudice dell’appello non avrebbe tenuto conto dei chiarimenti resi dall’ausiliare, giungendo all’erronea convinzione secondo cui “in presenza di una tempestiva diagnosi, la donna avrebbe potuto godere soltanto di due anni di vita in più, mentre le maggiori percentuali di sopravvivenza indicate nell’accertamento peritale (oltre i dieci anni dal 75 all’80/85 % dei casi) ed il minore rischio di morte (a dieci anni, dal 21 al 7%) avevano valorizzato una possibilità di sopravvivenza, in termini percentuali, ben superiore senza limiti di tempo scientificamente apprezzabili”.
Al riguardo, la Cassazione ha avuto già in passato modo di affermare che il mancato esame delle complete risultanze della CTU integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
La Suprema Corte, pertanto, nell’accogliere il ricorso, ha osservato che il giudice dell’appello effettivamente, pur richiamando il principio del “più probabile che non”, non ne ha fatto corretta applicazione in quanto ha statuito che la morte della donna non sarebbe stata evitata dalla diagnosi tempestiva del medico, la quale avrebbe consentito soltanto una sopravvivenza più lunga di due anni, ed ha applicato il principio di causalità esclusivamente in relazione al lasso temporale di vita non vissuta.
La decisione impugnata, pertanto, si è focalizzata non sull’evento morte ma sul probabile tempo di sopravvivenza, configurando il vizio di violazione di legge denunciato dai ricorrenti.
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Cortile condominiale: sosta del veicolo, anche se breve, può costituire abuso
Il condomino che parcheggia la propria autovettura in una porzione di cortile condominiale non consentendone l’uso agli altri condomini viola l’art. 1102 c.c. Il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile in cassazione.
La Suprema Corte interviene ancora una volta sull’uso delle parti comuni nel condominio con la ordinanza n. 7618/19 della Sez. IV depositata in data 18 marzo 2019.
La fattispecie nasce dinanzi al Giudice Pace di Napoli con la richiesta di un condomino di far cessare il parcheggio nel cortile condominiale di un motociclo in quanto tale parcheggio avrebbe ostruito l’ingresso dell’abitazione dell’attore e non avrebbe consentito ex art. 1102 c.c. l’uso della parte comune agli altri condomini.
Il convenuto -costituendosi- ha chiesto il rigetto delle richieste dell’attore in quanto il parcheggio era sporadico e della durata pochi minuti. Sia il Giudice di Pace che -in appello- il Tribunale hanno accolto la richiesta della parte che chiedeva la cessazione del parcheggio perché risultava provata la violazione dell’art. 1102 c.c.
Con un unico motivo il convenuto in primo grado ha chiesto la cassazione della sentenza per la violazione dell’art. 116 c.p.c. avente ad oggetto la valutazione della prova da parte del giudice di merito. Secondo il ricorrente il Tribunale avrebbe errato nella valutazione delle prove. Le soste erano sporadiche e per brevi periodi e non di lungo periodo come sostenuto dal Tribunale sulla errata valutazione delle risultanze istruttorie. Non vi era quindi alcuna violazione dell’art. 1102 c.c.
La Cassazione con la pronuncia in esame ha rigettato il ricorso. La violazione dell’art. 116 c.p.c. non può essere motivo di ricorso in cassazione.
I giudici di merito hanno accertato la violazione dell’art. 1102 c.c. in quanto secondo la loro insindacabile valutazione delle risultanze istruttorie la sosta, configurandosi come “stabile occupazione”, impediva agli altri condomini l’uso della parte condominiale comune.
Del resto -anche a volere considerare l’eccezione del ricorrente secondo cui la sosta era sporadica e per poco tempo- la Suprema Corte sostiene che l’art. 1102 c.c. “non pone alcun margine minimo di tempo e di spazio per l’operatività delle limitazioni dell’uso, sicchè può costituire abuso anche l’occupazione per pochi minuti di una porzione del cortile comune, ove comunque impedisca agli altri condomini di partecipare al godimento dello spazio oggetto di comproprietà”.
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Sopraelevazione compromette la staticità dell’edificio? L’azione è imprescrivibile
L’azione accertamento negativo tendente a far valere l’inesistenza del diritto di sopraelevare, ottenendo la demolizione dell’opera che non rispetti il presupposto normativo della stabilità dell’edificio può essere esercitata senza limiti di tempo.
E’ quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 20228 depositata il 23 agosto scorso.
La pronuncia costituisce, innanzitutto, l’occasione per “tracciare” un quadro della normativa vigente.
L’art. 1127, comma I c.c. attribuisce al proprietario esclusivo dell’ultimo piano (o del lastrico solare) la possibilità di sopraelevare, realizzando, quindi, una nuova opera oltre l’ultimo piano. A “mitigare” tale facoltà vi sono:
- sia il diritto degli altri condomini di opporsi alla sopraelevazione “se questa pregiudica l’aspetto architettonico dell’edificio ovvero diminuisce notevolmente l’aria e la luce dei piani sottostanti”, previsto dal terzo comma della medesima disposizione codicistica;
- sia l’obbligo in capo a chi sopraeleva, sancito dal successivo quarto comma, di corrispondere una indennità agli altri proprietari, nonché l’obbligo di ricostruire il lastrico solare.
Il secondo comma dell’art. 1127 c.c. ha, inoltre, statuito che la sopraelevazione sia, in ogni caso, inammissibile qualora “le condizioni statiche dell’edificio non la consentano”.
I condomini dei piani sottostanti possono, dunque, opporsi ad una opera che alteri il decoro dell’edificio condominiale o ne pregiudichi la stabilità. Il relativo diritto può essere esercitato anche dopo l’effettiva realizzazione dell’opera stessa agendo nei confronti del proprietario dell’ultimo piano per ottenere la condanna di quest’ultimo alla riduzione in pristino dei luoghi (oltre che al risarcimento dei danni).
In tale quadro normativo è, più volte, sorto il problema della sussistenza o meno di un termine prescrizionale entro il quale il sopra citato diritto all’opposizione possa, e debba, essere esercitato. In altre parole: una volta eseguita la sopraelevazione gli altri condomini posso opporsi sine die?
Nel caso in esame il proprietario dell’ultimo piano condannato (in primo e secondo grado) alla demolizione della sopraelevazione aveva adito la Suprema Corte adducendo, tra l’altro, proprio la prescrizione del diritto degli altri condomini alla restitutio in integrum.
La pronuncia in commento, uniformandosi alla precedente giurisprudenza in materia, ha rimarcato la necessità di operare una distinzione tra sopraelevazione che comprometta la staticità dell’edificio e sopraelevazione che ne pregiudichi unicamente il decoro.
Già in passato la Corte di Cassazione aveva chiarito che il diritto dei condomini a non vedere turbato il profilo architettonico dello stabile incontrasse un preciso limite temporale, non potendo essere esercitato oltre il termine (ventennale) entro il quale il proprietario dell’ultimo piano matura il diritto a mantenere la nuova opera. In tale caso, infatti, “il diritto reale ad opporsi concretandosi in una limitazione del diritto di proprietà altrui, non può che estinguersi, al pari delle servitù, per prescrizione ventennale in caso di mancato esercizio e, di contro, non possono non essere salvi gli effetti dell’usucapione in conseguenza del possesso dell’immobile” (Cass. civ. n. 17035 del 2012).
Diverso il discorso nel caso di sopraelevazione non consentita dalla condizioni statiche dell’edificio.
Con la pronuncia n. 20288 del 2017 la Corte di Cassazione ha ribadito che nella eventualità da ultimo richiamata “è, invece, imprescrittibile l’azione di accertamento negativo tendente a far valere l’inesistenza del diritto di sopraelevare, mancando un presupposto della sua stessa esistenza”.
L’azione volta ad ottenere la demolizione dell’opera che non rispetti il presupposto normativo della stabilità dell’edificio può, dunque, essere esercitata senza limiti di tempo.
In tale ipotesi, infatti, l’azione non è volta a limitare un diritto in sé esistente, bensì proprio a farne valere l’inesistenza per insussistenza di un requisito previsto ex lege.
Orbene, nel caso sottoposto al vaglio degli Eremellini, la Consulenza Tecnica d’Ufficio svolta in primo grado aveva appurato che la sopraelevazione “avesse inciso sui carichi permanenti e sui sovraccarichi accidentali dell’edificio con conseguente pregiudizio statico”.
La Suprema Corte, sulla scorta delle considerazioni che precedono, aveva, quindi, rigettato l’eccezione di prescrizione sollevata dal proprietario dell’ultimo piano stante l’imprescrittibilità, nei casi quali quello in esame, del diritto ad ottere la restitutio in integrum.
(Altalex, 21 settembre 2017. Nota di Lara Bargna)
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Scuolabus investe alunno: Ministero responsabile
Secondo un consolidato insegnamento della giurisprudenza, in caso di danno subito dall’alunno in ambito scolastico, la responsabilità dell’istituto e dell’insegnante ha natura contrattuale ex art. 1218 cod. civ.
La scuola risponde anche in caso di danno cagionato all’alunno dal conducente dello scuolabus? Fino a che punto si estende il dovere di vigilanza da parte dell’amministrazione scolastica?
Questi sono i temi affrontati dalla Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, con la sentenza 28 aprile 2017, n. 10516.
Secondo la Suprema Corte, per il danno occorso al minore in ambito scolastico seppure avvenuto oltre l’orario delle lezioni è responsabile il Ministero dell’Istruzione.
Con la sentenza n. 10516 del 28/04/17, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del Ministero dell’Istruzione che aveva chiesto la riforma della decisione della Corte d’Appello di Trieste, la quale, confermando la sentenza di primo grado, aveva condannato la Pubblica Amministrazione al risarcimento del danno in favore dei familiari del piccolo S.G.. Il minore, all’uscita di scuola, veniva accompagnato dall’insegnante assieme ai compagni a salire sul pullman gestito da una società cui il Comune aveva conferito l’appalto per il trasporto scolastico. Il bambino rimaneva incastrato nella porta automatica del veicolo azionata dal conducente ed in seguito trascinato e travolto dallo stesso mezzo che gli procurava lesioni gravi che ne cagionavano la morte.
Nel primo grado di Giudizio, il Tribunale aveva condannato il Ministero dell’Istruzione in quanto aveva ritenuto colposo il comportamento assunto dall’insegnante che aveva indotto il conducente ad avviare la marcia del veicolo assicurandolo del fatto che tutti gli alunni fossero ormai saliti regolarmente a bordo.
La Corte d’Appello confermava la decisione e il Ministero ricorreva per Cassazione, la quale precisava importanti principi in materia di responsabilità civile degli istituti scolastici.
In primo luogo la Suprema Corte ribadiva che la fattispecie è sussumibile nell’ambito della responsabilità contrattuale richiamando il consolidato orientamento della Giurisprudenza di legittimità secondo cui: “in caso di danno cagionato dall’alunno a sè stesso (ma anche in caso di danno cagionato all’alunno per responsabilità ascrivibili a difetto di vigilanza o di controllo degli organi scolastici), la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante ha natura contrattuale, atteso che, quanto all’istituto, l’instaurazione del vincolo negoziale consegue all’accoglimento della domanda di iscrizione, e, quanto al precettore, il rapporto giuridico con l’allievo sorge in forza di “contatto sociale.”.
Si ricorda che la giurisprudenza colloca determinate fattispecie (come ad esempio la responsabilità del medico dell’azienda pubblica nei confronti del paziente) nell’alveo della responsabilità contrattuale seppure alla base del rapporto non vi sia un contratto inteso nel senso stretto del termine ma sussista una particolare relazione sociale idonea a far sorgere specifici doveri comportamentali che vanno oltre al generico principio del neminem laedere.
In secondo luogo la Cassazione, dopo aver inquadrato la fattispecie nella responsabilità contrattuale, individua in capo all’istituto scolastico e più in particolare agli insegnanti, un preciso dovere di protezione nei confronti degli alunni consistente nel vigiliare sul minore affidatogli sino al momento in cui un altro soggetto non ne acquisisca in concreto il controllo.
Da questo fondamentale assunto si possono individuare con relativa precisione i limiti della responsabilità dell’istituto scolastico e quindi del Ministero dell’istruzione. In particolare non ha rilievo il fatto che il sinistro sia avvenuto fuori dal cancello dell’istituto scolastico o in un momento successivo alla fine delle lezioni.
La Cassazione infatti, ha confermato la sentenza di condanna della Corte d’Appello in quanto al momento del tragico infortunio la società alla quale era stato appaltato il trasporto degli alunni non aveva ancora assunto la posizione di garanzia sul minore, che è risultato essere sempre sotto il controllo dell’insegnante, con i relativi obblighi in capo al medesimo.
(Altalex, 28 settembre 2017. Nota di Carlo Andrea Giarratano)

Trasportato, sì ad azione diretta anche se veicolo non aderisce a CARD
Il trasportato può agire contro l’assicuratore del vettore, anche se l’altro veicolo coinvolto non aderisce alla Convenzione.
Deve privilegiarsi la posizione del terzo trasportato in conformità al principio solidaristico“vulneratus ante omnia reficiendus”.
È quanto ha stabilito la Corte di cassazione, sez. III civile, con la sentenza 21 gennaio 2020, n. 1161 (testo in calce).
Sommario
Il fatto
Si discute se la presunzione di legge di cui all’art. 141 del decreto legislativo 209/2005, – e cioè che il trasportato possa agire nei confronti dell’assicuratore del suo vettore a prescindere dalla responsabilità di quest’ultimo – possa applicarsi anche laddove l’altro veicolo coinvolto non aderisca alla Convenzione Terzi Trasportati.
La decisione
La Suprema Corte si era già pronunciata con ordinanza n. 1279 del 18.01.2019 della terza Sezione ed aveva affermato il seguente principio di diritto: “in tema di risarcimento del danno da incidente stradale, la persona trasportata può avvalersi dell’azione diretta nei confronti dell’impresa di assicurazioni del veicolo sul quale viaggiava al momento del sinistro anche se quest’ultimo sia stato determinato da uno scontro in cui sia rimasto coinvolto un veicolo assicurato con una compagnia che non abbia aderito alla convenzione tra assicuratori per il risarcimento diretto, c.d. CARD, atteso che l’art. 141 del d.lgs. n. 206 del 2005, di derivazione comunitaria, assegna una garanzia diretta alle vittime dei sinistri stradali in un’ottica di tutela sociale che fa traslare il “rischio di causa” dal terzo trasportato, vittima del sinistro, sulla compagnia assicuratrice del trasportante”.
In altro precedente, la Cassazione si era già espressa sull’ambito di applicazione dell’art. 141 cod. ass. in relazione al caso di sinistro in cui uno dei veicoli fosse privo di
assicurazione r.c.a. In quell’occasione il Collegio osservò che l’interpretazione costituzionalmente orientata della norma imponeva di riconoscere al terzo la possibilità di azionare la procedura diretta, a prescindere dall’identificazione del soggetto civilmente responsabile, dalla ripartizione di responsabilità tra conducenti e finanche dall’essere assicurato il veicolo antagonista, salvo esclusivamente il caso fortuito. In questo modo, sarebbe stato possibile tener conto dell’esigenza di salvaguardare la posizione del terzo, non ostacolando il ricorso ad uno strumento di tutela semplificato e più celere, aggiuntivo rispetto all’ordinaria azione nei confronti del proprietario del veicolo e civilmente responsabile.
È vero – affermò – che riconoscere la legittimazione del terzo trasportato di agire ai sensi dell’art. 141 cod. ass. anche quando nel sinistro è coinvolto un veicolo non assicurato o non identificato potrebbe pregiudicare la possibilità di rivalsa della compagnia assicurativa, ma “ciò risponde ad una scelta del legislatore in tema di allocazione del rischio, che ha scelto di privilegiare, nei limiti del massimale minimo di legge, il diritto del trasportato ad ottenere prontamente il risarcimento, agendo nei confronti del soggetto a lui sicuramente noto (la compagnia di assicurazioni del veicolo sul quale è trasportato), senza dover né attendere l’accertamento delle rispettive responsabilità, né tanto meno dover procedere alle ricerche della compagnia assicuratrice del veicolo investitore” (Cassazione Civile Sez. III Sez. 3, 05/07/2017 n. 16477).
Questa giurisprudenza si muove nel solco tracciato dalla Corte di Giustizia (Corte di giustizia europea 1.12.2011, sentenza Churchill Insurance/Wilkinson) secondo cui l’esatta interpretazione delle direttive europee in materia di assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione di autoveicoli deve condurre a privilegiare la posizione del terzo trasportato in conformità al principio solidaristico “vulneratus ante omnia reficiendus” con l’unico limite del terzo consapevole della circolazione illegale del mezzo.
CASSAZIONE CIVILE, SENTENZA N. 1161/2020 >> SCARICA IL TESTO IN PDF
fonte: https://www.altalex.com/documents/news/2020/02/06/trasportato-si-ad-azione-diretta-anche-se-veicolo-non-aderisce-a-card
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Riconsegna della casa in affitto danneggiata: inquilino paga anche il canone
Se l’immobile locato viene riconsegnato con danni eccedenti il normale utilizzo, il conduttore è tenuto a pagare, oltre i lavori di ristrutturazione, anche i canoni d’affitto per il periodo necessario alle riparazioni.
E’ quanto deciso dalla Corte di Cassazione, Terza Sezione Civile, nell’ordinanza 7 marzo 2019, n. 6596.
Nella vicenda da cui trae origine la sentenza in commento, un ex affittuario aveva lasciato la casa locata in pessime condizioni, per cui il locatore, era stato costretto ad effettuare lavori di ristrutturazione. Al momento della quantificazione dei danni dopo l’affitto, il conduttore si era mostrato disponibile a pagare solo un importo corrispondente alla spesa sostenuta dal proprietario di casa per la ristrutturazione, ma quest’ultimo aveva chiesto anche il risarcimento per l’ulteriore danno derivante dall’impossibilità di locare ad altri l’immobile, a causa della lunga durata di detti lavori.
Il Tribunale adìto aveva accolto la domanda, ma la Corte territoriale, riformando parzialmente la decisione, aveva rilevato che nessun risarcimento o indennità spettasse ai proprietari a titolo di ristoro a causa della perduta possibilità di locare l’immobile durante il tempo occorrente per la ristrutturazione, non avendo dimostrato che, nel caso in cui l’immobile fosse stato riconsegnato in buone condizioni, sarebbe stata conclusa immediatamente una nuova locazione. Avverso tale decisione, i locatori hanno proposto ricorso per cassazione.
Esaminando il caso in oggetto, la Suprema Corte ha accolto il gravame, rilevando che è pacifico che: “qualora, in violazione dell’art. 1590 c.c., al momento della riconsegna l’immobile locato presenti danni eccedenti il degrado dovuto a normale uso dello stesso, incombe al conduttore l’obbligo di risarcire tali danni, consistenti non solo nel costo delle opere necessarie per la rimessione in pristino, ma anche nel canone altrimenti dovuto per tutto il periodo necessario per l’esecuzione e il completamento di tali lavori, senza che, a quest’ultimo riguardo, il locatore sia tenuto a provare anche di aver ricevuto – da parte di terzi – richieste per la locazione, non soddisfatte a causa dei lavori”.
Qualora il locatore a causa della condotta del conduttore non può disporre della cosa locata, ha diritto a conseguire “il corrispettivo convenuto”, nonché ad ottenere il risarcimento di ulteriori, eventuali danni, dimostrandone l’esistenza. Pertanto, se l’immobile, alla riconsegna, presenta danni eccedenti il degrado dovuto a normale uso dello stesso, si ha “mancata disponibilità” della cosa locata, per fatto imputabile al conduttore, per cui il locatore non può trarre, dalla cosa, alcun vantaggio.
A ciò si aggiunga che, il risarcimento dovuto al locatore in conseguenza della indisponibilità dell’immobile durante il periodo occorrente per i lavori di restauro, non costituisce un danno in re ipsa. In effetti, il periodo necessario per i lavori di restauro, è equiparato dalla giurisprudenza di legittimità alla ritardata restituzione dell’immobile, con la conseguenza che spetterà, per tale periodo, al proprietario “il corrispettivo convenuto”, ai sensi dell’art. 1591 c.c., salva la prova del maggior danno, che grava sul locatore.
(Altalex, 20 marzo 2019. Nota di Maria Elena Bagnato)
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Sinistro stradale all’interno di un cantiere: sì all’azione diretta
La Suprema Corte si è trovata ad affrontare la questione relativa alla possibilità per il danneggiato di poter esperire azione diretta nei confronti della compagnia assicuratrice nel caso di un sinistro stradale all’interno di un’area privata.
All’interno di un cantiere edile, durante il proprio lavoro e a causa di una distrazione colposa nel manovrare un veicolo adibito al trasporto di sabbia, un operaio causava la morte di G.M., altro operaio adibito alle operazioni di apertura del cassone del veicolo.
I congiunti del G.M. citavano in giudizio sia la società di costruzioni datrice di lavoro del defunto, sia la compagnia assicuratrice del veicolo coinvolto nel sinistro.
Si costituiva esclusivamente la compagnia assicuratrice eccependo carenza di legittimazione passiva e la non operatività della polizza in quanto la copertura – sosteneva la convenuta- non operava in un’area privata.
Il Giudice di prime cure rigettava la richiesta di risarcimento nei confronti dell’Assicurazione e così anche la Corte d’Appello.
Veniva proposto, quindi, ricorso in Cassazione sulla base di due motivi:
- Omessa valutazione di un fatto decisivo (ex art. 360 co.1 n. 5 c.p.c.) in quanto la Corte d’Appello dichiarava non dimostrato l’uso pubblico dell’area in cui era avvenuto il sinistro mortale, poichè l’accesso non era permesso “al traffico veicolare di una serie indeterminata di persone”;
- Violazione e falsa applicazione in diritto dell’art. 144 del Codice delle Assicurazioni (ex art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c.) in quanto l’azione diretta è esperibile tanto in caso di sinistri stradali incorsi in aree e strade “ad uso pubblico” tanto in “aree a queste equiparate”, dovendo ricomprendere in tale definizione tutte quelle aree destinate abitualmente al transito di un numero indeterminato di persone (indeterminatezza che non viene meno neanche quando le persone appartengono ad una determinata categoria o quando l’accesso avvenga per finalità particolari e specifiche)1.
Proponeva controricorso la compagnia assicuratrice, chiedendo l’inammissibilità o il rigetto del ricorso sostenendo che l’oggetto dell’appello era limitato all’operatività della garanzia assicurativa in favore della Società edile e, pertanto, non riguardasse anche la qualificazione dell’area in cui era occorso il sinistro.
Nel merito si eccepiva l’infondatezza del ricorso in quanto l’area oggetto del sinistro era di proprietà della datrice di lavoro della vittima e, in secondo luogo, perché la garanzia operava esclusivamente nei confronti dei terzi, ed il lavoratore non poteva ritenersi un terzo dato che l’attività del Sig. G.M. era proprio quella di partecipare alle operazioni di carico e scarico, durante la quale era rimasto.
La Cassazione accoglieva il ricorso dei congiunti del G.M. precisando che:
- la sentenza di appello non aveva tenuto conto delle deduzioni dei ricorrenti sul contenuto della polizza, la quale copriva non solo la responsabilità civile per i danni causati dalla circolazione dei veicoli in area privata ma anche quelli cagionati a terzi proprio nelle operazioni di carico e scarico merci sul/dal veicolo e, pertanto, la questione sull’operatività dell’azione diretta non era una novità ma già proposto nei precedenti gradi di giudizio.
- non è conforme ai principi espressi in precedenza dalla stessa Suprema Corte la necessità, in capo al ricorrente, di dover dimostrare “l’uso pubblico dell’area di verificazione dell’incidente”, anche in relazione al fatto per cui la natura privata del cantiere non esclude ex se la sua qualificazione in area di uso pubblico, ai fini dell’esperibilità dell’azione diretta ex artt. 1 e 18 L. 990/1969 (applicabili ratione temporis al caso de quo).
In conclusione, quindi, la Corte di Cassazione ha ribadito quanto già espresso in precedenti sentenze2, specificando come l’azione diretta nei confronti della compagnia assicuratrice ben possa esperirsi anche quando il sinistro sia avvenuto in un’area privata in quanto la stessa è equiparabile alla strada di uso pubblico quando la stessa sia aperta ad un numero indeterminato di persone, che vi abbiano accesso giuridicamente lecito, anche quando le stesse appartengano a determinate categorie e nonostante l’accesso a detta area avvenga per finalità specifiche e condizioni particolari.
(Altalex, 5 agosto 2018. Nota di Tiziano Magrelli)
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Revoca della donazione di immobile: ai confini dell’ingiuria grave
La donazione è revocabile per ingratitudine qualora il donatario manifesti un sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastante con il senso di riconoscenza e di solidarietà che, secondo il comune sentire, dovrebbe invece improntarne l’atteggiamento.
Tale manifestazione è integrata qualora il donatario di un immobile, poi concesso in comodato al donante, agisca per ottenere la liberazione dell’immobile dal donante medesimo, ormai novantenne e privo degli affetti familiari più prossimi, a mezzo di una intimazione formale, non preceduta da alcun contatto diretto e personale, e ciò a prescindere da qualsivoglia valutazione circa la legittimità di tale domanda di restituzione.
1. Il caso
Tizio e Caio, fratelli germani, in qualità di proprietari comodanti di un immobile in Palermo, convenivano in giudizio la comodataria, originaria donante a quelli dell’immobile medesimo, per chiedere la risoluzione del contratto di comodato per mancato uso del bene, e dunque la restituzione dello stesso.
In via riconvenzionale, la comodataria donante chiedeva la revocazione della donazione per ingratitudine, allegando di aver subito grave ingiuria da parte dei donatari.
Il Tribunale di Palermo respingeva entrambe le domande con sentenza n.ro 2592 del 2010; tale sentenza veniva tuttavia riformata in secondo grado, rinvenendo la Corte d’Appello di Palermo nel caso in esame la sussistenza dei requisiti per la revocazione dell’atto liberale.
La controversia giungeva così innanzi alla Corte di Cassazione, la quale, con l’ordinanza 13 agosto 2018, n. 20722, ha confermato la pronuncia di appello, con rigetto integrale del ricorso degli originari donatari[1].
2. Problematiche giuridiche
La fattispecie oggetto della pronuncia giudiziale solleva a ben vedere due questioni giuridiche totalmente diverse, che pur nel caso in esame si intersecano tra loro.
In primis, infatti, si pone il problema di valutare se nel caso in esame i comodanti donatari avessero o meno il diritto di richiedere la restituzione dell’immobile alla comodante ed in secundis se un eventuale pur legittimo esercizio del loro diritto potesse in ogni caso rappresentare una grave ingiuria per il donante tale da consentire la revocazione della donazione.
Il diritto alla restituzione della cosa concessa in comodato
Come noto, il comodato è quel contratto reale essenzialmente gratuito con il quale una parte, il comodante, consegna ad un’altra, il comodatario, una cosa mobile o immobile affinchè se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta.
Tale obbligo di restituzione è disciplinato differentemente dagli artt. 1809 e 1810 c.c.a seconda che nel comodato sia stata indicata o meno la durata.
Nel primo caso, ai sensi dell’art. 1809 c.c. l’obbligo alla restituzione deve essere adempiuto alla scadenza prevista dal contratto, che può essere stata indicata in modo espresso ovvero de relato mediante individuazione dell’uso cui la cosa data in comodato è destinata. In tale ultimo caso, infatti, il comodatario è tenuto a restituirla quando se ne è servito in conformità a tale uso.
In ogni caso, anche prima che scada il termine previsto, il comodante può sempre chiedere al comodatario la restituzione anticipata del bene qualora gli sia sopraggiunto un urgente e impreveduto bisogno.
Se invece nel contratto di comodato non è previsto alcun termine di durata, nemmeno de relato mediante indicazione dell’uso cui la cosa è destinata, il comodante può chiedere la restituzione in ogni momento ai sensi dell’art. 1810 c.c.
Sul punto, risulta rilevante precisare come quando un immobile è concesso in comodato per i bisogni della famiglia o per esigenze abitative, la giurisprudenza è monolitica nel ricondurre la fattispecie non al contratto di comodato privo di durata, ma a quello d’uso, ove il termine del comodato, pur non prefissato, deve desumersi de relato in base all’uso cui la cosa è destinata[2]: in poche parole, tale comodato dura sino a che permangono le esigenze familiari o abitative, e al comodante è fatto salvo di richiedere la restituzione del bene prima della cessazione di tali esigenze non in ogni momento come previsto all’art. 1810 c.c., bensì solo qualora gli sia sopraggiunto un urgente e impreveduto bisogno.
Nel caso in esame, per quanto la sentenza in esame non si esprima espressamente sul punto, pare possibile desumere che il comodato dell’immobile fosse stato concesso alla originaria donante al fine di soddisfare le sue esigenze abitative e che, dunque, fino al perdurare delle medesime la restituzione del bene concesso in comodato non potesse essere richiesta.
Tanto premesso, dalla medesima motivazione della sentenza pare emergere come in effetti i comodanti avessero allegato la circostanza che la loro donante e comodataria avesse di fatto smesso di abitare nell’immobile, con ciò dimostrando che fossero venute meno le esigenze abitative giustificanti il comodato, ovvero che la comodataria se ne fosse già servita conformemente all’uso, e che pertanto potesse ritenersi scaduto il termine di durata del medesimo.
Se tanto è vero, per quanto detto sopra si sarebbe potuto ritenere legittima la loro domanda alla restituzione dell’immobile.
Senonchè viene in rilievo il secondo profilo giuridico già accennato, attinente alla valutazione della richiesta di restituzione del bene non da un profilo meramente di legittimità, ma di correttezza morale e rispettosità nei confronti della persona della donante, alla luce della disciplina sulla revocazione della donazione per ingratitudine di cui agli artt. 800 e ss. c.c.
La revocazione della donazione per ingratitudine
Come noto, ai sensi dell’art. 800 c.c., la donazione validamente effettuata (che non sia donazione remuneratoria o fatta in riguardo di un determinato matrimonio) può essere sempre revocata per ingratitudine o per sopravvenienza di figli.
In particolare, la revocazione per ingratitudine è possibile ogniqualvolta si verifichi uno degli eventi indicati all’art. 801 c.c., ossia:
- quando il donatario abbia commesso uno dei fatti previsti dai numeri 1, 2 e 3 dell’art. 463 c.c.;
- quando il donatario si sia reso colpevole d’ingiuria grave verso il donante;
- quando il donatario abbia dolosamente arrecato grave pregiudizio al patrimonio del donante;
- quando il donatario abbia rifiutato indebitamente al donante gli alimenti dovuti ai sensi degli articoli 433, 435 e 436 c.c..
L’ipotesi che viene richiamata nel caso in esame è quella della grave ingiuria: essa, pur mutuando dal diritto penale il suo significato intrinseco e l’individuazione del bene leso, si distacca, tuttavia, dalle previsioni degli artt. 594 e 595 c.p., e consiste in un comportamento del donatario che manifesti un sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la comune coscienza, dovrebbe invece improntarne l’atteggiamento[3].
Grave ingiuria è dunque un comportamento che esteriorizzi, e dunque renda percepibile a terzi, l’ingratitudine del donatario verso il donante, nei cui confronti sia maturata una opinione irriguardosa.
E’ evidente che tale fattispecie sia destinata ad evolversi e a mutare in tutt’uno con l’evolversi degli usi e costumi sociali, e che per la sua individuazione molto dipenda dal comune sentire di cosa possa ritenersi rispettoso o anche solo tollerabile e cosa invece non possa esserlo, a prescindere da una valutazione di legittimità (tanto in sede civile quanto penale) del comportamento medesimo.
3. La decisione della Cassazione
Tanto premesso in punto di diritto, risulta ampiamente giustificata la pronuncia della Corte di Cassazione, che ha confermato quanto disposto dalla sentenza di secondo grado, rigettando il ricorso dei donatari comodanti.
Nel caso in esame, infatti, la Corte di Appello aveva individuato nei comportamenti dei donatari un contegno a dir poco oltraggioso verso la donante, tenuto conto della sua età avanzata (ormai novantenne), delle sue condizioni di vita, del fatto che si trovasse ormai priva degli affetti familiari più prossimi e che confidasse ciecamente nel loro operato.
In tali circostanze il comune senso del rispetto fa percepire come intollerabile l’invio a questa da parte degli allora comodanti e donatari di una lettera formale di intimazione al rilascio dell’immobile, intimazione peraltro nemmeno preceduta da un tentativo di contatto personale e diretto con la comodataria.
E ciò a prescindere da qualsiasi valutazione circa la legittimità o meno dell’azione intrapresa dai donatari medesimi come comodanti, ossia a prescindere dalla ipotetica sussistenza o meno di un diritto alla restituzione della cosa concessa in comodato. Come ben chiarito dalla Corte di Cassazione, la decisione della Corte di Appello impugnata ha valutato l’iniziativa giudiziaria intrapresa dai ricorrenti non sotto il profilo della legittimità dell’azione, irrilevante ai presenti fini, ma più correttamente nell’ambito del legame affettivo con la donataria, legame che la aveva indotta ad effettuare la donazione.
In conclusione, nel rigettare il ricorso e confermare la bontà della decisione del Giudice di secondo grado, la Cassazione ha statuito che l’individuazione di un comportamento ingiurioso del donatario rilevante ex art. 801 c.c. può prescindere da qualsivoglia valutazione circa la legittimità del medesimo, basandosi piuttosto su una valutazione fattuale tratta dal comune sentire circa il suo carattere oltraggioso, contrastante con il sentimento di gratitudine e di stima che invece dovrebbe naturalmente caratterizzarlo.
(Altalex, 12 novembre 2018. Nota di Sara Terpin)
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Fumare è una scelta libera: risarcimento negato per il tumore
E’ notorio che il fumo faccia male alla salute, ma fumare è una scelta libera: nessun risarcimento spetta al fumatore che si ammala a causa di tale vizio.
E’ quanto chiarito dalla Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, con la sentenza n. 11272 del 10 maggio 2018.
Nel caso in esame, un fumatore aveva citato in giudizio il produttore, il distributore di una determinata marca di sigarette, nonchè il Ministero della Salute, per sentirli condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non, patiti per la gravissima malattia che egli aveva contratto a causa del fumo. In particolare, parte attrice aveva ammesso di avere cominciato fin da giovane a fumare anche due pacchetti di sigarette al giorno, e che tale abitudine aveva determinato il formarsi di un carcinoma al lobo inferiore del suo polmone sinistro. Non essendo riuscito a smettere di fumare, aveva addebitato la propria assuefazione al fumo, alle sostanze contenute nelle sigarette, asserendo che esse generavano in lui uno stato di bisogno imperioso con dipendenza sia psichica che fisica, tali da indurlo a diventare un tabagista incallito.
Per tali motivi, aveva citato in giudizio il produttore ed il distributore delle sigarette, responsabili, secondo lui, di aver importato e commercializzato i prodotti da fumo, nonché il Ministero della Salute responsabile, invece, di avere omesso di salvaguardare la salute pubblica.
Tale pretesa risarcitoria è stata rigettata dal Giudice di prime cure, decisione poi confermata anche dalla Corte territoriale.
Nello specifico, i giudici dell’appello avevano ritenuto manifestamente insussistente il nesso causale fra, le pretese condotte illegittime dei convenuti ed il danno lamentato, evidenziando che, da lunghissimo tempo, la dannosità del fumo costituisce un dato di comune esperienza, atteso che, anche in Italia era conosciuta, e già dagli anni 70 pubblicizzata, la circostanza che l’inalazione da fumo fosse dannosa alla salute e provocasse il cancro. Dunque, la Corte ha escluso il nesso di causalità, sia in quanto, la circostanza che il fumo faccia male alla salute è un fatto socialmente notorio, sia in applicazione del c.d. principio della “causa prossima di rilievo”, atteso che, la scelta di fumare, è libera, consapevole ed autonoma, assunta da soggetto dotato di capacità di agire, nonostante la risaputa nocività del fumo. Ciò va applicato a maggior ragione, al caso in esame, in cui vi è un comportamento da ritenersi da solo sufficiente a causare l’evento, secondo le regole generali in tema di nesso di causalità ex art 41. Co. 2,c.p. Inoltre, i giudici di merito hanno rilevato che, contrariamente a quanto sostenuto da parte attrice, la nicotina non annulla la capacità di autodeterminazione del soggetto, “costringendolo” a fumare dai due ai quattro pacchetti al giorno, senza possibilità di smettere.
Tale pronuncia è stata condivisa anche dalla Corte di Cassazione, che ha respinto il ricorso.
Nella fattispecie in oggetto, secondo la Suprema Corte, il nesso eziologico necessario per delineare l’esistenza della responsabilità risarcitoria ex artt. 2043 c.c. e 2050 c.c., è stato legittimamente escluso dalla Corte di merito, secondo il principio della causa prossima di rilievo. Di conseguenza, la Cassazione ha considerato irrilevante il tema della prova liberatoria ai sensi dell’art. 2050, che si sarebbe dovuto affrontare ove il presupposto del nesso causale fosse stato asseverato.
Altro motivo di doglianza sollevato dal ricorrente, è che la Corte d’Appello non avrebbe preso in considerazione lo spazio temporale in cui le imprese produttrici, pur a conoscenza del grado di nocività delle sigarette e dell’assuefazione provocata dalla nicotina sulla libertà dismettere di fumare, non avevano informato adeguatamente i consumatori, sui rischi collegati all’uso del prodotto di sigarette.
La Suprema Corte ha ritenuto tale motivo, relativo alla responsabilità contrattuale, assorbito a seguito del rigetto del primo, atteso che, l’insussistenza del nesso causale esclude anche la responsabilità ex art. 1218 c.c., invocata dal ricorrente. Tra l’altro, tale motivo sarebbe stato, comunque, inammissibile, in quanto è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si trasforma in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, dunque non ha rilevanza il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
Pertanto, ritenendo i motivi proposti inammissibili, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio.
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Danno tanatologico va riconosciuto se vittima era lucida prima di morire
Ok al risarcimento agli eredi per il danno di natura catastrofale per la vittima d’incidente che arriva lucida in ospedale. Si configura il danno tanatologico in capo alla vittima, la quale, essendo dotata di capacità giuridica, può trasmetterlo agli eredi.
E’ quanto precisato dalla terza sezione civile della Cassazione nella sentenza 23 ottobre 2018, n. 26727.
Nella vicenda in oggetto, è stato accolto il ricorso delle congiunte del de cuius, le quali avevano agito in giudizio per ottenere il risarcimento del danno tanatologico, derivato dal decesso del rispettivo marito e padre, in conseguenza di un sinistro stradale.
Nell’esaminare il caso de quo, la Cassazione ha ribaltato la decisione della Corte d’appello, non condividendone il mancato riconoscimento del danno c.d. tanatologico o catastrofale. In particolare, il giudice di merito ha ritenuto che la morte del danneggiato fosse avvenuta immediatamente dopo le lesioni da questi subite, senza considerare il tempo intercorso tra il sinistro e la morte, in palese contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, il danno suddetto va ricondotto al danno morale come sofferenza derivante dal morire lucidamente e consapevolmente.
A ciò si aggiunge che la corte territoriale ha escluso la sussistenza di tale danno, richiamando a fondamento la relazione del medico legale che aveva eseguito l’autopsia, secondo il quale “l’exitus avvenne repentinamente, con passaggio brusco” dalla buona salute alla “grave malattia mortale”. In realtà, i giudici di merito non hanno tenuto conto della distanza temporale fra il sinistro e la morte, di quasi due ore, e che il ciclista “fino a pochi istanti prima del sopraggiungere della morte” sarebbe stato “perfettamente lucido, tanto da riuscire persino a rispondere alle domande postegli dagli operatori sanitari giunti in suo soccorso, senza infine, considerare “l’attività professionale svolta dalla vittima”, che era medico.
La Suprema Corte ha inoltre ritenuto “clamorosamente contraddittorio” il ragionamento della relazione medica, il cui contenuto, sarebbe riferibile ad un infarto fulminante o ad eventi simili, ma non alle lesioni subite da un ciclista per l’investimento di un veicolo. A ciò si aggiunga, che il danneggiato, essendo un medico, ha avuto la consapevole percezione della morte imminente.
La Cassazione ha poi precisato che, se la morte è immediata o segue alle lesioni “entro brevissimo tempo” non sussiste diritto al risarcimento jure hereditatis, osservando altresì che l’attuale impostazione pone “il danno al centro” del sistema della responsabilità civile, sempre più oggettiva; danno che deve identificarsi nella “perdita cagionata da una lesione di una situazione giuridicamente soggettiva”. Inoltre, secondo le Sezioni Unite, nell’ipotesi di morte per atto illecito il conseguente danno è la perdita del bene giuridico “vita”, che è “bene autonomo”, fruibile solo dal titolare e non reintegrabile per equivalente.
Tra le numerose pronunce della corte di legittimità, assume rilievo, per il caso in esame, la sentenza n. 21060, Cass. sez. 3, 19 ottobre 2016, in cui emerge una distinzione tra il danno biologico e il danno psicologico-morale propri della fase terminale della vita. Nello specifico, secondo tale pronuncia, il diritto al risarcimento del “danno biologico terminale” è configurabile, e dunque trasmissibile jure hereditatis ove intercorra “un apprezzabile lasso di tempo” tra la lesione e la morte, non essendo rilevante che durante tale periodo, la vittima abbia mantenuto lucidità, presupposto invece del diverso danno morale terminale, configurabile danno tanatologico come danno morale terminale o da lucida agonia o catastrofale o catastrofico, già rinvenibile, nelle sentenze delle S.U. dell’11 novembre 2008 nn. 26772 e 26773, e consistente nella sofferenza che si prova per la consapevole percezione dell’ineluttabile approssimarsi della morte. Orbene, per verificare la sussistenza di quest’ultimo danno, rileva il criterio dell’intensità della sofferenza patita “a prescindere dall’apprezzabile intervallo di tempo tra lesioni e decesso”. Al contrario, nel caso ” di morte cagionata dalla lesione”, è risarcibile il “danno biologico terminale” qualora le lesioni siano separate dalla morte da un “apprezzabile lasso di tempo”, danno questo che la vittima subisce anche se non è cosciente e che è trasmissibile jure hereditatis.
In virtù della netta scissione tra danno biologico terminale e danno morale terminale, quest’ultima pronuncia si discosta rispetto all’insegnamento “unitarista” delle S.U. n. 15350/2015 in quanto esige, per la risarcibilità del danno biologico terminale, un “apprezzabile lasso di tempo”, laddove le Sezioni Unite pongono come esimente dalla relativa responsabilità risarcitoria, il decorso di un “brevissimo tempo”. Nel caso in cui il soggetto sia rimasto lucido nello spatium temporis tra la lesione e la morte, dal momento che, se la sua lucidità viene manifestata, non si può negare la risarcibilità del danno non patrimoniale, che sussiste sia sotto il profilo biologico sia sotto il profilo psicologico “morale”. Non è ammissibile che la sofferenza umana possa essere un elemento giuridicamente irrilevante, ovvero che l’assenza di sofferenza umana sia un elemento senza rilevanza.
Nella fattispecie in esame, la lucidità dl danneggiato si è manifestata inequivocabilmente: anche a prescindere, dal fatto che lo spatium temporis emerge essere stato tutt’altro che il “brevissimo tempo” cui si riferiscono le Sezioni Unite nella sentenza sopra citata, per escludere il risarcimento, trattandosi, nel caso in oggetto, addirittura di ore; occorre precisare che tale lucidità è provata dal fatto che, la cronologia degli eventi è stata confermata dalle dichiarazioni della stessa vittima, come riferito da un soccorritore.
Pertanto, atteso che il soggetto era lucido in quanto rispondeva ai sanitari ricostruendo la “cronologia degli urti”, quindi percepiva la sua tremenda situazione, tale da non poter non indurre il forte timore della morte imminente e lo strazio per l’abbandono dei congiunti. A ciò si aggiunga, inoltre, che il danneggiato era un medico, dunque la sua consapevolezza della morte imminente non poteva non essere particolarmente intensa. Tali elementi, rilevanti per la determinazione del quantum risarcitorio, non sono stati presi in considerazione dalla corte di merito. Pertanto, la corte territoriale, ha violato l’art. 2043 c.c., escludendo il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale rappresentato dall’agonia della vittima, – sia da un punto di vista biologico che psicologico-morale; diritto sorto in capo al danneggiato quando questi era dotato di capacità giuridica, e pertanto trasmesso jure hereditatis alla moglie e alle figlie.
Per tali argomentazioni, la Cassazione ha cassato la sentenza impugnata con rinvio anche per le spese processuali.
(Altalex, 20 novembre 2018. Nota di Maria Elena Bagnato)
continua