
Insidie: proprietario della strada deve vigilare anche su terreni adiacenti di privati
Il proprietario della strada deve vigilare anche su terreni adiacenti di privati. Non devono sorgere situazioni di pericolo per gli utenti della strada e, ove si verifichino, deve attivarsi per rimuoverle o farle rimuovere.
Questo è quanto ha stabilito la Corte di cassazione, sez. III civile, con l’ordinanza 9 marzo 2020, n. 6651 (testo in calce).
Sommario
Il fatto
Un albero situato in un canale di scolo prospiciente la strada, a seguito di una tempesta di vento, era caduto sulla strada stessa trasversalmente impedendo il passaggio di una vettura e causando la collisione con la stessa, danneggiandola. Si discute se le fasce di rispetto, previste dagli artt. 16 lett. c), 14 lett. a) e b) del codice della strada e 26 del regolamento di attuazione del codice della strada, rientrino nella competenza dell’ente proprietario della strada, in punto di dovere di vigilanza e persino di manutenzione (su beni non demaniali).
La decisione
La pronuncia vira decisamente da un precedente orientamento consolidato, quanto superato dal 2008, secondo il quale il custode rispondesse per colpa ex art. 2043 cc, anzichè ex art. 2051 cc, con la conseguenza inevitabile (ed è questo il punto di maggior rilievo, sebbene scontato) dello spostamento dell’onere della prova in capo al danneggiato che avrebbe dovuto dimostrare i caratteri della invisibilità o della imprevedibilità dell’insidia, come unico argomento utile ad atteggiare la responsabilità del custode. Questo orientamento è ormai stato ampiamente superato dal 2008, momento dal quale la responsabilità del custode sarà di carattere oggettivo.
La Cassazione incide ulteriormente su questo cambio di rotta, affermando, nella fattispecie in esame (tempesta) che il danneggiato che agisca per il risarcimento dei danni subiti mentre circola sulla pubblica via è tenuto alla dimostrazione dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la cosa in custodia, ma non anche dell’imprevedibilità e non evitabilità dell’insidia o del trabocchetto, né della condotta omissiva o commissiva del custode, gravando su quest’ultimo, in ragione dell’inversione dell’onere probatorio che caratterizza la peculiare fattispecie di cui all’art. 2051 c.c., la prova di aver adottato tutte le misure idonee a prevenire che il bene demaniale potesse presentare, per l’utente, una situazione di pericolo occulto, nel cui ambito rientra anche la valutazione della sua prevedibilità e visibilità rispetto alle concrete condizioni in cui l’evento si verifica (cfr. Cass. 11802/2016).
Il Supremo Collegio aveva altresì confermato questa inversione dell’onere della prova, affermando che la responsabilità della pubblica amministrazione di cui all’art. 2051 c.c. opera anche in relazione alle strade pubbliche, con riguardo, tuttavia, alla causa concreta del danno, rimanendo i soggetti che ne hanno la custodia liberati dalla responsabilità suddetta solo ove dimostrino che l’evento sia stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, ovvero da una situazione che imponga di qualificare come fortuito il fattore di pericolo, avendo esso esplicato la sua potenzialità offensiva prima che fosse ragionevolmente esigibile l’intervento riparatore dell’ente custode (cfr. Cass. 16295/2019).
Dettato il suddetto onere della prova in capo al custode, la Suprema Corte gli attribuisce un ulteriore obbligo: in tema di circolazione stradale è dovere primario dell’ente proprietario della strada garantirne la sicurezza mediante l’adozione delle opere e dei provvedimenti necessari; ne consegue che sussiste la responsabilità di detto ente in relazione agli eventi lesivi occorsi ai fruitori del tratto stradale da controllare, anche nei casi in cui l’evento lesivo trova origine nella cattiva o omessa manutenzione dei terreni laterali alla strada, ancorché appartenenti a privati, atteso che è comunque obbligo dell’ente verificare che lo stato dei luoghi consenta la circolazione dei veicoli e dei pedoni in totale sicurezza (principio già affermato in Cass. 23562/2011 e Cass. 15302/2013); infatti, sostiene la Cassazione, l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito, benché non abbia la custodia dei fondi privati che la fiancheggiano e, quindi, non sia tenuto alla loro manutenzione, ha l’obbligo di vigilare affinché dagli stessi non sorgano situazioni di pericolo per gli utenti della strada, nonché – ove, invece, esse si verifichino – quello di attivarsi per rimuoverle o farle rimuovere, sicché è in colpa, ai sensi del combinato disposto degli articoli 1176, secondo comma, cod. civ. e 2043 cod. civ. (n.d.r.: si badi, ex art. 2043 e neppure ex art. 2051 cc.), qualora, pur potendosi avvedere con l’ordinaria diligenza della situazione di pericolo, non l’abbia innanzitutto segnalata ai proprietari del fondo, né abbia adottato altri provvedimenti cautelativi, ivi compresa la chiusura della strada alla circolazione” (cfr. Cass 22330/2014; Cass. 6141/2018).
Si rilevi l’impercettibile passaggio, quanto significativo, dell’onere di vigilanza del custode, il quale risponde per responsabilità persino diretta, ex art. 2043 c.c. e neppure presunta e di carattere oggettivo, ex art. 2051 cc.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 6651/2020 >> SCARICA IL TESTO PDF
fonte: https://www.altalex.com/documents/news/2020/04/02/insidie-proprietario-della-strada-deve-vigilare-anche-su-terreni-adiacenti-di-privati
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Ius variandi solo per giustificato motivo: anche nella telefonia
Con la sentenza 2 marzo 2020, n. 1529 (testo in calce), il Consiglio di Stato si è occupato della legittimità della disposizione contenuta nel regolamento adottato dall’AGCom «Recante disposizioni a tutela degli utenti in materia di contratti relativi alla fornitura di servizi di comunicazioni elettroniche».
La normativa
In particolare, tale regolamento, all’art. 6, dispone che gli operatori di telefonia mobile possono modificare «le condizioni contrattuali solo nelle ipotesi e nei limiti previsti dalla legge o dal contratto medesimo».
Tale previsione era stata ritenuta illegittima dal Giudice di prime cure, ma l’appello interposto dall’Autorità Garante ha consentito al Consiglio di Stato di affrontare la questione, giungendo ad un esito opposto.
In particolare, l’appellante sosteneva che la sentenza impugnata fosse erronea laddove essa ha ritenuto che il potere regolamentare esercitato fosse privo di base legale, non esistendo norme che pongono limiti al diritto di modifica unilaterale dei contratti nel settore delle comunicazioni elettroniche.
In contrario, l’appellante sosteneva l’applicabilità del Codice del consumo alla fattispecie in questione: il quale condiziona l’esercizio dello ius variandi all’esistenza di un «giustificato motivo».
La decisione
Il Consiglio di Stato, nell’accogliere il ricorso (e dunque confermare la validità del regolamento di AGCom) ha innanzitutto evidenziato come lo ius variandi costituisca un diritto potestativo, riconosciuto ad una parte, dalla legge o dal contratto, di modificare o specificare unilateralmente il contenuto del contratto, e che nell’ambito dei contratti di diritto comune – caratterizzati dalla presenza di parti che si pongono in posizione di tendenziale eguaglianza – esistono alcune norme che contemplano fattispecie riconducibili a tale istituto.
Riguardo alla legittimità di una clausola negoziale che attribuisca ad una sola delle parti il potere di modificare il rapporto negoziale, la pronuncia ricorda che vi sono due orientamenti: un primo orientamento, minoritario, esclude che tale potere possa essere esercitato in mancanza di una norma generale che ne autorizzi l’esercizio ; un secondo orientamento, prevalente e preferibile, ritiene che tale potere sia configurabile in quanto, in mancanza di espressi divieti legali, rientra nell’autonomia negoziale delle parti contemplare clausole che consentano ad una di essa di modificare in via unilaterale il contenuto del contratto.
Invece, nell’ambito dei contratti con le parti deboli, caratterizzati da una situazione di squilibrio informativo ed, in alcuni casi, economico, tra le parti, il legislatore europeo e nazionale, proprio in ragione della particolare natura della clausola in esame, ha ritenuto necessario disciplinare il potere di modificazione unilaterale sottoponendo il suo esercizio a limiti legali mediante la previsione di specifiche norme imperative che costituiscono una proiezione applicativa dello stesso principio di buona fede. Ed è questo il caso dei contratti di consumo, il legislatore nazionale ha previsto un chiaro limite legale all’esercizio del potere di ius variandi, costituito dal potere di recesso riconosciuto all’utente.
Ciò premesso, il Collegio ha evidenziato come anche in assenza di tale puntuale prescrizione, un limite legale sia desumibile dal principio generale di buona fede nella fase di esecuzione del contratto, che impedisce alla parte forte di incidere in via unilaterale sul contenuto del contratto con modalità esecutive contrastanti con le regole di correttezza.
Sulla base di questi presupposto il Consiglio di Stato ha quindi chiarito che “l’operatore di telefonia mobile, nella fase di esercizio del diritto potestativo di modificazione del rapporto contrattuale, è obbligato ad indicare le ragioni oggettive, connesse, normalmente, alla gestione di sopravvenienze rilevanti, che giustificano in modo oggettivo lo ius variandi.”
CONSIGLIO DI STATO, SENTENZA N. 1529/2020 >> SCARICA IL TESTO PDF
Per inciso, va notato che la pronuncia in esame richiama anche in precedente del Consiglio di Stato che, con diverso percorso argomentativo, giungeva ad analoga soluzione: Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 2019, n. 8024).
fonte. https://www.altalex.com/documents/news/2020/03/26/ius-variandi-solo-per-giustificato-motivo-anche-nella-telefonia
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Ascensore condominiale malfunzionante, occorre risarcire i danni ai terzi
Il condominio è tenuto a risarcire al terzo i danni che questo ha subito a causa di un malfunzionamento dell’ascensore condominiale.
Può tuttavia rivalersi nei confronti della ditta cui era affidata la manutenzione se il sinistro è imputabile ad un malfunzionamento preesistente, già noto alla ditta e che questa non ha provveduto ad eliminare.
Questo è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, sez. 3 civile, con l’ordinanza 13 giugno-29 novembre 2019, n. 31215 (testo in calce).
L’analisi dei motivi di ricorso ha consentito alla Corte di ribadire anche che, in virtù del principio del libero convincimento, il giudice di merito ha piena autonomia nell’apprezzare il quadro probatorio acquisito.
I fatti di causa
La pronuncia trae origine da un incidente verificatosi in un ascensore condominiale, che a seguito di un malfunzionamento accelerava in maniera brusca ed improvvisa portando all’infortunio di una donna.
Quest’ultima otteneva il ristoro dei danni subiti dal condominio, che agiva a sua volta nei confronti della ditta incaricata della manutenzione dell’ascensore, chiedendo il rimborso di quanto versato alla danneggiata.
A detta del condominio il malfunzionamento si era già manifestato prima del sinistro e malgrado la ditta ne fosse consapevole non aveva mai provveduto a porvi rimedio, rendendosi con ciò responsabile di quanto accaduto.
Sia il Tribunale sia la Corte d’Appello di Napoli confermavano la condanna in manleva della ditta.
In particolare i giudici d’appello accertavano che l’incidente era stato provocato dal cattivo funzionamento del selettore di manovra, dovuto alla rottura dei nottolini posti sulla fune e che il malfunzionamento si era appunto già manifestato prima del sinistro.
In conseguenza di ciò la ditta era quindi responsabile, non tanto per l’omissione degli interventi manutentivi previsti dal contratto e richiesti dal condominio, quanto per non aver promosso la necessaria sostituzione di un componente che aveva già rilevato essere difettoso.
La soccombente proponeva ricorso per cassazione, cui resistevano il condominio ed il terzo danneggiato con distinti controricorsi.
Il ricorso per cassazione: i motivi
La ditta lamentava un’erronea valutazione delle risultanze istruttorie da parte del giudice di merito, in particolare di quelle conseguenti all’accertamento tecnico preventivo espletato ante causam, da cui non sarebbe emerso alcun difetto di manutenzione dell’ascensore ma solo l’opportunità di sostituire il selettore di manovra (risalente agli anni ’70) con un altro di tipo diverso.
La Corte d’Appello avrebbe quindi errato nell’ascrivere la responsabilità del sinistro anche alla ditta, posto che, secondo quest’ultima, la modifica e l’aggiornamento dell’impianto erano scelte riservate alla sola proprietà dell’immobile.
Risultanze istruttorie e libero convincimento del giudice
Gli Ermellini escludono che il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito integri un vizio denunciabile con il ricorso per cassazione.
Nello specifico la Corte non ritiene censurabile il fatto che il collegio abbia attribuito un significato diverso alle risultanze fattuali dell’ATP.
L’accertamento tecnico preventivo non contiene infatti valutazioni tecniche sulle cause dei danni ma serve unicamente a “fotografare” una situazione di fatto, a beneficio del giudice e delle parti, fornendo elementi che altrimenti sarebbero destinati a sparire o a modificarsi se non acquisiti in quella sede.
Il giudice di merito può quindi apprezzare gli elementi presi in esame dal consulente tecnico e le considerazioni da questi espresse, se li ritiene utili ai fini della decisione, non essendovi tuttavia vincolato in alcun modo in virtù del principio del libero convincimento.
La ricostruzione fattuale offerta dal consulente rappresenta quindi la base di valutazione del giudice, che tuttavia potrà attribuire ai fatti una diversa considerazione alla stregua delle norme che riterrà di volta in volta applicabili al caso concreto.
Nella fattispecie in esame la Corte d’Appello ha ritenuto che tra gli obblighi del manutentore vi fosse non solo quello di intervenire ogni volta che l’ascensore presentava un inconveniente, ma anche quello di (quanto meno) segnalare alla proprietà l’eventuale sostituzione di componenti obsoleti, causa, come tali, di possibili e generici malfunzionamenti ma anche di danni ai trasportati.
Una conclusione che, proprio perché basata sulle risultanze dell’ATP, logicamente argomentata e frutto del libero convincimento del giudice, non è sindacabile in sede di legittimità.
Conclusioni
La Corte ha quindi dichiarato inammissibile il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio nonchè di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 31215/2019 >> SCARICA IL TESTO PDF
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Troppo tempo su Facebook? Ok al licenziamento
Quanto alle regole sulla privacy, secondo gli Ermellini, non risulta che tale specifica questione sia stata sollevata nel corso dei gradi di merito, valendo il principio per cui «qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto. La carenza della predetta indicazione impone di considerare la questione come nuova, sicchè non può ammettersi il suo ingresso in sede di legittimità».
Quanto, invece, all’idoneità probatoria della cronologia, secondo la Corte ogni questione attiene alla formazione del convincimento del giudice del merito, il quale ha sul punto ampiamente motivato, valorizzando non solo la mancata contestazione da parte della ex dipendente, ma anche il fatto che gli accessi alla pagina personale Facebook richiedono una password, con la conseguenza che non devono nutrirsi dubbi sulla riferibilità di essi alla ricorrente.
Valutazioni, continua la Corte, rispetto alle quali la censura si traduce in una richiesta di diversa valutazione della prova (e quindi del merito) che non può avere ingresso, a fronte di una motivazione non implausibile da parte della Corte d’Appello, in sede di legittimità.
Sotto altro profilo, la Cassazione si sofferma su alcuni aspetti relativi al processo telematico: il (datore di lavoro) controricorrente aveva, infatti, sostenuto l’inesistenza e/o nullità della notifica del ricorso e della relata, per violazione dell’art. 19 bis del provvedimento 16.4.2014 (specifiche tecniche di cui al D.M. n. 44 del 2011, artt. 18 e 34), per aver la ricorrente effettuato la notifica di atti in formato non consentito (doc/docx e non pdf).
Secondo la Corte trattasi di rilievo infondato, in quanto la consegna telematica di un atto in “estensione.doc”, anzichè in “formato.pdf”, che abbia comunque prodotto il risultato della conoscenza dell’atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale della notificazione, nonostante la violazione della normativa inerente il processo telematico, esclude il verificarsi di qualsivoglia nullità.
Analoghe considerazioni, secondo gli Ermellini, valgono rispetto all’eccepita inesistenza o nullità della notifica del ricorso e della relata, asseritamente derivanti dal fatto che, nei documenti notificati in formato doc e docx, vi sarebbero “macroistruzioni, codici eseguibili ed elementi attivi” che potrebbero consentire la modificazione di atti, fatti o dati in essi rappresentati.
Il ricorso per cassazione, come anche la relata, sono infatti destinati ad essere depositati, in copia analogica; pertanto ciò rileva è se, in concreto, tra quanto notificato in via telematica e quanto risultante agli atti del giudizio di cassazione vi siano difformità. Ma, non avendo la controricorrente fatto alcuna menzione di ciò, l’irregolarità (se in ipotesi sussistente) è da ritenere sia stata del tutto innocua, non essendo state in concreto apportate modificazioni agli atti notificati in via telematica.
(Altalex, 26 febbraio 2019. Nota di Ranieri Romani)
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Reagisce al bullo? Nessuna condanna
E’ necessario prestare attenzione e tutela all’adolescente che è esposto ad atti di bullismo idonei a provocare delle reazioni amplificate.
E’ quanto emerge dall’ordinanza della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione n. 22541/2019 (testo in calce).
Sommario
Il caso
Il caso vedeva un giovane, vittima da tempo di atti di bullismo, reagire sferrando un pugno al volto dell’aggressore. Per tale motivo i giudici di merito di secondo grado condannavano l’adolescente in solido con i suoi genitori a risarcire il danno cagionato al bullo.
Questo in quanto, secondo i giudici territoriali, la reazione era arrivata in un secondo momento rispetto alla condotta persecutoria da parte del bullo, con la conseguenza di non poter configurare come legittima difesa la reazione del bullizzato.
La decisione della Cassazione
Secondo i giudici della Suprema Corte, quando l’autore della reazione è un adolescente, vittima di comportamenti prevaricatori, reiterati nel tempo, occorre tener conto che la sua personalità non si è ancora formata in modo saldo e positivo rispetto alla sequela vittimizzante cui è stato sottoposto.
E’ prevedibile, continuano, che la vittima possa reagire con comportamenti aggressivi internalizzati che possono trasformarsi, con costi particolarmente elevati in termini emotivi, in forma di resilienza passiva e autoconservativa, evolversi in forme di autodistruzione oppure tradursi, come in questo caso, in comportamenti esternalizzati aggressivi.
Sempre secondo la Cassazione in assenza di prove circa come le istituzioni, la scuola, in particolare, fossero intervenute per arginare il fenomeno del bullismo, mancando anche la prova di espressioni di condanna pubblica e sociale del comportamento adottato dai cosiddetti bulli, non era legittimo attendersi da parte dell’adolescente una reazione razionale controllata e non emotiva.
Per gli ermellini, quindi, non si possono ignorare le condizioni di umiliazione a cui l’adolescente è stato ripetutamente sottoposto.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 22541/2019 >> SCARICA IL TESTO PDF
fonte: https://www.altalex.com/documents/news/2019/09/17/reagisce-al-bullo-nessuna-condanna
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Danno da fermo tecnico del mezzo va provato?
In caso di sinistro stradale, il cosiddetto danno da “fermo tecnico”, ossia quello che si concreta nell’impossibilità temporanea di utilizzare il veicolo, non è presunto, ma va provato. Ad esempio, dimostrando di aver sopportato degli esborsi per noleggiare un mezzo alternativo. Nel nostro ordinamento, infatti, non trovano ingresso i danni in re ipsa e grava sul danneggiato l’onere di dimostrare il pregiudizio subito. In particolare, il danno non può desumersi dalla mera circostanza dell’indisponibilità del mezzo, né dal pagamento della tassa di circolazione (che prescinde dall’uso del veicolo) e delle spese assicurative (che possono essere sospese); infine, il deprezzamento del bene non è legato causalmente al fermo tecnico, ma alla necessità di procedere alla riparazione del mezzo.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con l’ordinanza 4 aprile 2019, n. 9348.
La vicenda
Durante una manovra di retromarcia, un’auto travolge un motociclo, parcheggiato in strada e privo di assicurazione. Il mezzo riporta dei danni e la proprietaria, ritenendo insufficiente la somma offerta dall’assicurazione del danneggiante, agisce in giudizio per ottenere la differenza. Ella ritiene di aver patito, oltre ai danni materiali, un pregiudizio a causa del fermo tecnico del ciclomotore, durato ben tre giorni, per i quali chiede la condanna del responsabile al risarcimento. In primo ed in secondo grado, la richiesta attorea viene rigettata. Infatti, secondo i giudici di merito:
- la somma versata dalla compagnia assicurativa doveva considerarsi satisfattiva del danno materiale riportato dalla moto;
- non era dovuta l’IVA, poiché non era stata prodotta la relativa documentazione fiscale in ordine all’assolvimento della stessa;
- il danno da fermo tecnico non era risarcibile, poiché il mezzo non poteva circolare, essendo privo di garanzia assicurativa.
Interviene la Cassazione, che si pronuncia sulla problematica del fermo tecnico del veicolo e chiarisce quando sia ammissibile il risarcimento per questa tipologia di pregiudizio.
Il danno da fermo tecnico del mezzo
Il cosiddetto danno da fermo tecnico consiste nel nocumento subito dal danneggiato per la perdita della materiale disponibilità del mezzo nel tempo necessario alla riparazione, da cui deriva l’impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile. Infatti, il veicolo, anche durante il periodo di “sosta forzata”, resta comunque una fonte di spesa per il titolare, il quale deve sostenere la tassa di circolazione, il premio assicurativo, oltre a subire il naturale deprezzamento di valore del bene. La Corte si trova a dover decidere se il danno da “sosta forzata” sia un danno in re ipsa – come sostenuto da parte ricorrente – ovvero se debba essere allegato e provato. La questione è stata oggetto di un pluriennale contrasto giurisprudenziale, di seguito si segnalano i due orientamenti contrapposti.
Primo orientamento: danno presunto (in re ipsa)
Secondo alcune pronunce (Cass. 22687/2013; Cass. 13215/2015), il danno a carico del proprietario è in re ipsa, ossia consiste nel fatto stesso dell’impossibilità di utilizzare il proprio veicolo per un certo tempo, a prescindere dall’uso effettivo a cui il bene è destinato. Dunque, l’esistenza di un danno risarcibile può ritenersi sussistente sulla base di una presunzione relativa (praesumptio hominis) superabile solo con la dimostrazione concreta che il proprietario, anche se non fosse stato privato della possibilità di usare il mezzo, non l’avrebbe comunque utilizzato. Il danno discende dalla perdita della disponibilità del veicolo e dall’impossibilità di goderne; il pregiudizio patrimoniale si riconnette alla perdita temporanea delle utilità normalmente conseguibili nell’esercizio delle facoltà di godimento e di disponibilità che il proprietario subisce. Tuttavia, si tratta di una presunzione iuris tantum, superabile ove si accerti che il titolare si sia intenzionalmente disinteressato del bene. Al di fuori di questa ipotesi, la quantificazione del danno avviene sulla base di elementi presuntivi semplici e viene liquidato dal giudice in via equitativa.
Secondo orientamento: danno da provare
Altre pronunce (Cass. 970/1996; Cass. 12820/1990) si oppongono alla ricostruzione sopra esposta e considerano insufficiente la mera indisponibilità del veicolo ai fini della liquidazione del danno da fermo tecnico. Mentre per il primo orientamento si prescinde dall’uso effettivo del veicolo, per il secondo, invece, esso assume rilievo determinante ai fini dell’esistenza di un danno risarcibile. Infatti, intercorre una differenza significativa tra il pregiudizio derivante dal fermo di un mezzo utilizzato solo per ragioni ludiche e quello scaturente dal fermo di un veicolo utilizzato a scopo lavorativo (Cass. 13718/2017). Per questa ragione, il pregiudizio deve essere allegato e il danneggiato ha l’onere di dimostrare la spesa sostenuta per procurarsi, ad esempio, un mezzo sostitutivo (danno emergente), ovvero deve provare la perdita di utilità economica sofferta per il mancato uso del bene o la perdita derivante dalla rinuncia forzata ai proventi ricavabili dal suo impiego (lucro cessante). Il danno non è presunto né coincidente con l’evento, al contrario si tratta di un “danno conseguenza” ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c.; pertanto il danneggiato, che ne chieda il ristoro, è tenuto a dimostrare l’effettiva lesione del proprio patrimonio. In buona sostanza, ogni conseguenza pregiudizievole derivante dal danno va provata, ossia occorre dimostrare di aver subito un depauperamento per non aver potuto usare direttamente e tempestivamente il mezzo.
La pronuncia
La Terza Sezione della Cassazione ha aderito all’ultimo orientamento, ritenendo che l’indisponibilità del veicolo, nel torno di tempo necessario alle riparazioni, vada allegata e dimostrata, pertanto, la prova del danno non può desumersi dalla mera circostanza dell’impossibilità di fruire del veicolo stesso (Cass. 15089/2015; Cass. 20620/2015; Cass. 13718/2017). La Corte indica le premesse su cui si fonda tale conclusione:
1) il danno in re ipsa non può trovare ingresso nel nostro ordinamento,
a) il danno non coincide con l’evento dannoso, ma riguarda le conseguenze che discendono dall’eventusdamni;
b) ammettere il danno in re ipsa si traduce nell’attribuire una funzione sanzionatoria alla responsabilità civile, anche al di fuori dei casi in cui la legge lo consente [1](Cass. 31233/2018);
2) la liquidazione equitativa del danno da parte del giudice non può sopperire alla mancata allegazione probatoria. Prima è necessario acclarare la “consistenza ontologica” del danno e, solo dopo, procedere alla sua quantificazione equitativa. Laddove non esista la certezza sull’esistenza del danno, il giudicante non può liquidarlo. Infatti, «il potere del giudice di liquidare equitativamente il danno ha la sola funzione di colmare le lacune insuperabili ai fini della sua precisa determinazione» e non esonera l’attore dall’onere della prova (Cass. 11698/2018). Di contro, il primo orientamento, fa un uso distorto della regola posta dall’art. 1226 c.c. in materia di liquidazione equitativa; questa non è sempre ammessa, ma è consentita «soltanto a condizione che sia obiettivamente impossibile o particolarmente difficile dimostrare, nel suo preciso ammontare, il danno di cui è peraltro provata con certezza la sussistenza» (Cass. 13718/2017);
3) la tassa di circolazione e le spese di assicurazione sopportate dal proprietario anche durante il fermo tecnico non possono reputarsi inutilmente pagate. Il cosiddetto “bollo” prescinde dall’uso del veicolo, poiché è una tassa di proprietà; la polizza può essere sospesa dal danneggiato, il quale deve impiegare l’ordinaria diligenza (art. 1227 c. 2 c.c.) ed evitare danni ulteriori;
4) infine, il naturale il deprezzamento del veicolo non è eziologicamente connesso al fermo tecnico, ma dipende dalla necessità di riparare il mezzo stesso.
Risarcimento del danno patrimoniale: l’IVA
Per completezza espositiva, si segnala un altro aspetto su cui è intervenuta la Cassazione con la pronuncia oggetto di scrutinio, ossia il risarcimento dell’IVA versata al riparatore.
La Corte precisa che il risarcimento del danno patrimoniale deve comprendere anche gli oneri e accessori ad esso conseguenziali. Pertanto, se il danno subito dal mezzo ha costretto il proprietario alla riparazione, l’importo dovuto a titolo di risarcimento deve essere comprensivo di quanto il danneggiato abbia versato all’autoriparatore a titolo di IVA. La suddetta somma è dovuta anche nella circostanza in cui la riparazione non abbia ancora avuto luogo, atteso che il riparatore per legge (art. 18 D.P.R. 633/1972) è tenuto ad addebitarla al committente, a titolo di rivalsa (Cass. 1688/2010). Nel caso di specie, i giudici di merito hanno rifiutato il rimborso di tale cifra coerentemente con la ratio decidendi della decisione impugnata. Infatti, secondo la ricostruzione effettuata:
- il veicolo è stato alienato immediatamente dopo la riparazione;
- il danneggiato non ha dimostrato di aver versato l’IVA al riparatore o di avere sostenuto spese di sorta;
- infine, si ritiene che la riparazione sia avvenuta “in economia”, ossia senza versamento dell’IVA al riparatore.
Ne consegue che il Tribunale non abbia negato tout courtche al danneggiato spetti il ristoro dell’importo dovuto a titolo di IVA sul costo delle riparazioni, al contrario, ha accertato che, nella fattispecie in oggetto, non v’era fattura e che l’IVA non fosse stata assolta. Del resto, trattasi di un accertamento di merito, non sindacabile in sede di legittimità (Cass. 19294/2016)
Conclusioni
Secondo il percorso argomentativo seguito dagli Ermellini, la sentenza gravata ha correttamente applicato le premesse sopra indicate e ha negato il risarcimento del danno da fermo tecnico in ragione della circostanza per cui il motociclo era sprovvisto di assicurazione obbligatoria e, pertanto, non poteva circolare. Nessuna prova contraria è stata fornita dal danneggiato quindi, secondo il principio dell’onere della prova (art. 2697 c.c.), actore non probante reus absolvitur.
La Cassazione ribadisce che il danno in re ipsa crea una presunzione che non solo esonera il danneggiato dall’onere probatorio di cui sopra, ma impone al preteso danneggiante di fornire una prova negativa (Cass. 13071/2018). Secondo l’orientamento seguito dalla pronuncia in commento, il danno in re ipsa rappresenta un illegittimo esonero dall’onere della prova ed è stato escluso anche dall’insegnamento delle cosiddette “sentenze di San Martino”, a mente delle quali è scorretto il “compattamento” del danno-evento con il danno-conseguenza. Ciò che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato; pertanto, è da disattendere la tesi che considera il danno come presunto, perché così «snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo» (Cass. S.U. 26972/2008).
fonte: https://www.altalex.com/documents/news/2019/04/12/danno-da-fermo-tecnico
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Danni da esondazione: abuso edilizio esclude responsabilità della Pa
L’esistenza di un’irregolarità costruttiva ridetermina l’effetto del nesso causale tra il bene in custodia della Pubblica Amministrazione ed il danno da risarcire.
E’ quanto chiarito dalla Corte di Cassazione, Sez. III Civile, nell’ordinanza n. 20312/19, depositata il 26 luglio scorso (testo in calce).
Fatto
La pronuncia in commento trae origine da una controversia avente ad oggetto la responsabilità da cose in custodia della Pubblica Amministrazione.
Nello specifico, la Corte territoriale aveva condannato un Comune a risarcire i danni patrimoniali subìti rispettivamente dal conduttore e dal proprietario di due immobili danneggiati a causa di un’esondazione di acqua e fango proveniente dalla strada comunale, provocata da una falla presente nelle tubazioni comunali di raccolta dell’acqua piovana.
Avverso tale sentenza, l’Ente ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, tra i motivi sollevati, che la Corte di merito avrebbe errato non solo nel riconoscere la responsabilità del Comune per l’occorso, ma nel ravvisare un danno risarcibile, considerata la natura abusiva, sotto il profilo edilizio, dei beni immobili danneggiati, riconducibile al proprietario danneggiato. In particolare, evidenziava che quest’ultimo, aveva ampliato l’immobile irregolarmente, ma i giudici d’appello non avevano tenuto conto della natura totalmente abusiva di tali parti dell’immobile costruite in ampliamento, che sono risultate le uniche ad essere investite dall’ondata di fango ed acqua meteorica proveniente dalla strada comunale, circostanza che avrebbe escluso il diritto a ottenere ristoro del danno in favore di chi ha commesso gli abusi edilizi.
Sentenza
La Cassazione ha ritenuto fondato tale motivo.
La Corte di merito, aveva riconosciuto la responsabilità del Comune per omessa custodia ex art. 2051 c.c., determinata dalla condotta negligente nella manutenzione dei condotti fognari della strada; aveva inoltre precisato che l’abuso edilizio del privato non aveva inciso su tutto l’immobile del proprietario ma solo sull’ampliamento privo del permesso a costruire, dando rilievo non solo agli obblighi di custodia ex art. 2051 c.c., ma anche al principio del neminem laedere che impone alla P.A. l’obbligo di adottare, nella costruzione e nella manutenzione delle pubbliche vie, gli accorgimenti e i ripari necessari per impedire di arrecare un danno ingiusto.
La Cassazione ha ritenuto non soddisfacente il ragionamento effettuato della Corte territoriale nel decidere il caso in esame.
La pretesa risarcitoria relativa al danneggiamento di un bene immobile, va commisurata all’impatto che ha avuto, nella causazione del danno, la condotta colposa del danneggiato, ex art. 1227 c.c., comma 1: a tal riguardo, il giudici di merito ha considerato tale comportamento solo in proporzione ai vizi costruttivi rilevati negli immobili danneggiati.
Altro aspetto, non adeguatamente considerato, riguarda l’esistenza di un’insanabile irregolarità edificatoria che interferisce sul diritto dei danneggiati ad ottenere il ripristino dello stato dei luoghi o il risarcimento per equivalente. Dunque, l’accertamento dei presupposti per l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 1227 c.c., in rapporto all’art. 2051 c.c., implicante un’analisi del nesso di causalità tra fatto ed evento, comporta un’indagine delle singole condotte colpose e della loro incidenza sul piano causale. Tale verifica è discrezionale, per cui, il giudice di legittimità dovrà valutare se essa sia stata fatta, con motivi logici e congruenti, in adesione alla fattispecie da esaminare. La presenza di una irregolarità costruttiva interferisce sul piano causale, e ciò deve essere adeguatamente considerata dal giudice di merito.
Inoltre, la Cassazione ha precisato che il diritto al risarcimento del danno causato da un fatto illecito altrui non può determinare un arricchimento ingiustificato per chi, costruendo un immobile in modo irregolare, non deve aggravare le responsabilità della Pubblica Amministrazione nei confronti dei terzi che entrino in contatto con la cosa in sua custodia.
Dunque il difetto di concessione edilizia del bene danneggiato, diminuisce, se non a cancellare, il diritto del proprietario del bene ad essere risarcito per equivalente del danno sofferto, poiché la costruzione abusiva non esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico tra l’amministrazione ed il privato che ha realizzato la costruzione, in spregio delle regole tecniche e dell’arte e delle norme edilizie, ma incide sulla risarcibilità del danno, se l’abuso avesse aggravato la posizione di garanzia cui è tenuta la Pubblica Amministrazione nella custodia dei propri beni. Pertanto, tale circostanza è in grado di recidere, ex art. 1227 c.c., comma 1, il nesso causale tra il bene in custodia della Pubblica Amministrazione ed il danno subito dal privato, possessore del bene abusivamente costruito, azzerando la responsabilità ex art. 2051 c.c., della pubblica amministrazione.
Per tali motivi, la Suprema Corte ha accolto il ricorso e cassato con rinvio la sentenza impugnata.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 20312/2019 >> SCARICA IL TESTO PDF
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La personalizzazione del danno morale non è un automatismo
La personalizzazione in aumento del danno non patrimoniale non costituisce mai un automatismo, ma richiede l’individuazione – da parte del giudice – di specifiche circostanze peculiari al caso concreto, che valgano a superare le conseguenze ordinarie già compensate dalla liquidazione forfettizzata tabellare. Pertanto, le conseguenze dannose “comuni” – ossia quelle che qualunque danneggiato con la medesima invalidità patirebbe – non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza del 27 maggio 2019 n. 14364 (scarica il testo integrale).
La vicenda
A seguito di un sinistro stradale, la passeggera di un’auto subiva delle lesioni personali e rimaneva invalida; citava in giudizio il proprietario del mezzo, il conducente e la compagnia assicurativa per ottenere il risarcimento del danno patito. In primo grado, il Tribunale condannava il conducente alla corresponsione di circa 500 mila euro a titolo risarcitorio. La danneggiata proponeva appello giacché:
- considerava errata la liquidazione del danno biologico (temporaneo e permanente);
- riteneva esigua la personalizzazione del danno morale;
- contestava l’omesso il riconoscimento del danno patrimoniale da lucro cessante.
Il giudice del gravame liquidava una somma aggiuntiva per l’invalidità temporanea parziale e rigettava le altre richieste. La danneggiata ricorre in Cassazione per ottenere una nuova liquidazione delle poste risarcitorie, al lume delle contestazioni sopra esposte; nella presente disamina ci soffermeremo su due delle tre doglianze.
Liquidazione tabellare del danno non patrimoniale
Tra i motivi di ricorso, la danneggiata si duole del fatto che il giudice di merito, nella liquidazione del danno da invalidità permanente, non abbia considerato un valore tabellare equivalente all’età. La Suprema Corte rigetta tale doglianza e precisa che, nella liquidazione del danno biologico permanente, occorre fare riferimento all’età della vittima al momento della cessazione dell’invalidità temporanea, perché è a partire da allora che il danno viene ad esistenza. Per contro, non rileva l’età anagrafica al momento del sinistro (Cass. 3121/2017; Cass. 10303/2012).
Ricordiamo che la misura del risarcimento del danno non patrimoniale è determinata in conformità al cosiddetto criterio tabellare o del punto variabile. La liquidazione del danno avviene per mezzo del “valore punto”, che può aumentare in base alla percentuale di invalidità ed in relazione all’aggravarsi della malattia. Pertanto, ad ogni punto di invalidità è attribuito un determinato valore monetario, che va diminuito o aumentato in base alla fascia d’età del soggetto. In tal guisa, la liquidazione del danno non patrimoniale risulta omogenea e non si creano sperequazioni tra una fattispecie e l’altra. Nondimeno, il risarcimento così quantificato può subire delle variazioni in aumento, in presenza di conseguenze anomale, eccezionali e peculiari. Per uscire dal “perimetro tabellare” – come lo definisce la Corte – è necessario provare una personalizzazione del pregiudizio subito rispetto a quello considerato come “ordinario” in casi simili.
Conseguenze del danno: comuni e peculiari
La ricorrente si duole, altresì, della circostanza che il danno morale sia stato liquidato nella misura del 30% di quello biologico, anziché del 45%, considerato un valore medio secondo le tabelle romane.
Prima di addentrarci nel decisum, è d’uopo ricordare brevemente cosa s’intende per danno non patrimoniale. Ebbene, anche sulla scorta del dato normativo (artt. 138, 139 C.d.A.), nell’accertare la lesione non patrimoniale, il giudice deve analizzare congiuntamente, ma distintamente:
- il danno morale inteso come dolore, al pari «della vergogna e della disistima di sé, della paura ovvero della disperazione»;
- il danno dinamico-relazionale «destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto».
La Corte si sofferma sulla liquidazione del danno non patrimoniale e precisa come l’attribuzione di una somma a titolo di risarcimento del danno biologico e di un’altra per il risarcimento del patimento interiore non rappresenti una duplicazione risarcitoria. Infatti, il cosiddetto pretium doloris, pur non avendo fondamento medico legale, se adeguatamente dimostrato, può formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (Cass. Ord. 7513/2018). Il principio posto alla base di tale affermazione è il seguente: la lesione del diritto alla salute comporta la compromissione di tutte le attività quotidiane della vittima, dal fare, all’essere, all’apparire. Pertanto, il danno arrecato alla salute è un danno dinamico-relazionale, giacché se così non fosse, non vi sarebbe un pregiudizio medicalmente (e legalmente) apprezzabile; si tratta di un nocumento che comporta una menomazione permanente sulle attività del quotidiano del danneggiato e, quindi, non è diverso dal danno biologico. Le conseguenze dannose possono distinguersi in:
- conseguenze comuni a tutte le persone, in dipendenza di quella tipologia di danno;
- conseguenze peculiari del caso concreto, in cui il pregiudizio sofferto dalla vittima sia superiore alla media.
Tutte queste conseguenze costituiscono un danno non patrimoniale.
Fatta tale premessa, è evidente come la liquidazione del danno varii, se ricorra la prima o la seconda circostanza, infatti:
- la liquidazione delle “conseguenze comuni” postula unicamente la dimostrazione della sussistenza dell’invalidità;
- per contro, la liquidazione delle “conseguenze peculiari” richiede la prova concreta del maggior pregiudizio patito.
Semplificando, può dirsi che aver perso la possibilità di svolgere una qualsiasi attività del quotidiano o rientra nella “conseguenza normale” del danno (di cui al punto 1), ossia nella situazione in cui si trovano tutti i soggetti che siano incorsi in una menomazione simile e si considera ristorata con la liquidazione del danno biologico ovvero si tratta di una “conseguenza peculiare” (di cui al punto 2) e, quindi, dovrà essere aumentata la stima del danno biologico, attraverso la personalizzazione.
La personalizzazione del danno non patrimoniale
La personalizzazione è un’“operazione” che consente al giudice di valorizzare il danno patito dalla vittima; il giudicante è tenuto a motivarla, facendo riferimento alle risultanze probatorie emerse nel corso del giudizio. In particolare, vanno evidenziate le circostanze di fatto, tipiche della fattispecie concreta, tali da superare le conseguenze ordinarie e da giustificare una liquidazione maggiorata, rispetto a quella forfettizzata in base ai criteri tabellari (Cass. 21939/2017). Come ricordato, il giudice deve individuare le conseguenze che qualunque vittima di lesioni analoghe subirebbe; e poi accertare eventuali conseguenze peculiari del caso specifico. Le prime vanno monetizzate con un parametro uniforme, le seconde con un criterio ad hoc scevro di automatismi (Cass. 16788/2015). Capovolgendo la prospettiva, si può affermare che non sia ammessa alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento, qualora le conseguenze sofferte siano quelle ordinarie secondo l’id quod plerumque accidit (Cass. Ord. 7513/2018). La personalizzazione, infatti, non costituisce mai un automatismo, ma richiede l’individuazione di specifiche circostanze ulteriori rispetto a quelle ordinarie.
Come ricordato in premessa, i valori tabellari sono destinati alla riparazione dei pregiudizi normalmentepatiti da qualunque vittima di lesioni analoghe. Spetta al giudice far emergere e valorizzare, le specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso concreto, che superino le conseguenze “comuni” già compensate dalla liquidazione forfettizzata del danno non patrimoniale assicurata dalle previsioni tabellari. Il pregiudizio specifico si distingue da quello ordinario per «l’irripetibile singolarità dell’esperienza di vita individuale nella specie considerata, caratterizzata da aspetti legati alle dinamiche emotive della vita interiore, o all’uso del corpo e alla valorizzazione dei relativi aspetti funzionali, di per sé tali da presentare obiettive e riconoscibili ragioni di apprezzamento (in un’ottica che, ovviamente, superi la dimensione “economicistica” dello scambio di prestazioni), meritevoli di tradursi in una differente (più ricca e, dunque, individualizzata) considerazione in termini monetari, rispetto a quanto suole compiersi in assenza di dette peculiarità» (Cass. 21939/2017).
Ai fini della personalizzazione del danno morale non rileva la mera sofferenza derivante dallo sconvolgimento delle abitudini di vita del danneggiato, ricollegabili ad esempio, al dolore di comune riferibilità e, quindi, non apprezzabile in una prospettiva di solidarietà relazionale; bensì rileva la lesione di interessi che assumano consistenza sul piano del disegno costituzionale della vita della persona. È necessario che il danno, di cui si chiede la personalizzazione, presenti dei profili di concreta riferibilità e inerenza all’esperienza personale, specifica e irripetibile. Diversamente opinando, si realizzerebbe una duplicazione delle poste risarcitorie, infatti, le conseguenze ordinarie che discendono da una lesione (di quella specifica entità e riferite a un soggetto di quella specifica età anagrafica) sono integralmente risarcite nella liquidazione del danno alla persona operata attraverso il meccanismo tabellare.
Conclusioni
La Suprema Corte, con la sentenza in commento, rigetta il ricorso della danneggiata e ribadisce la propria giurisprudenza in materia di liquidazione e personalizzazione del danno non patrimoniale, richiamando, in particolare, l’ordinanza 20795/2018. Secondo l’insegnamento di legittimità, il risarcimento forfettariamente individuato, in base ai meccanismi tabellari, può essere aumentato esclusivamente nel caso in cui il giudice ravvisi circostanze di fatto del tutto peculiari, idonee a superare le conseguenze ordinarie. Nella liquidazione, il giudicante è tenuto a considerare tutte le conseguenze patite dalla vittima, tanto nella sua sfera morale (ossia nel rapporto che il soggetto ha con sé stesso), quanto in quella dinamico-relazionale (che riguarda il rapporto del soggetto con la realtà esterna) e tale accertamento, unitario ed omnicomprensivo, deve avvenire in concreto.
(Altalex, 13 giugno 2019. Nota di Marcella Ferrari)
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Danno non patrimoniale da uccisione: la Cassazione fa il punto
La persona che, ferita, non muoia immediatamente, può acquistare e trasmettere agli eredi il diritto al risarcimento di due pregiudizi: il danno biologico temporaneo, sussistente solo per le sopravvivenze superiori alla giornata (24 ore) a prescindere dallo stato di coscienza della vittima; e il danno non patrimoniale, consistente nella lucida agonia (formido mortis), da accertarsi caso per caso, e sussistente solo nella circostanza in cui la vittima abbia avuto la consapevolezza della propria morte imminente.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con l’ordinanza del 5 luglio 2019 n. 18056 (scarica il testo in calce) che, con pregevole chiarezza, analizza e definisce il danno non patrimoniale da uccisione.
Sommario
2. I concetti di validità fisica e capacità lavorativa
3. Applicazione delle tabelle milanesi più recenti
4. Il danno non patrimoniale da uccisione: il lessico corretto
5. Le forme del danno da uccisione
6. Danno da uccisione: 1) lesione della salute
7. Danno da uccisione: 2) la formido mortis
1. La vicenda
Su un’autovettura viaggiavano, come trasportati, marito, moglie e due figli; a seguito dello scontro con un autobus, la donna e la prole decedevano, mentre il marito riportava delle lesioni personali; rimanevano illesi la conducente del veicolo [1] e l’autista del bus. Dal sinistro, scaturivano due processi:
1) il primo giudizio veniva introdotto dalla società proprietaria dell’autobus, al fine di ottenere il risarcimento dei danni per il danneggiamento del mezzo; si concludeva con la sentenza definitiva della corte d’appello, che attribuiva la responsabilità nella causazione del sinistro come segue: 80% in capo alla conducente dell’auto e 20% per l’autista del bus;
2) il secondo giudizio veniva introdotto dall’uomo, trasportato sull’auto, marito e padre delle tre vittime; dal fratello e dal padre della donna defunta. Gli attori chiedevano il risarcimento del danno verso la società proprietaria dell’autobus e il suo assicuratore; nonché verso la compagnia assicuratrice del mezzo su cui erano trasportate le vittime e, in corso di causa, verso la conducente.
In primo grado, il tribunale attribuiva la responsabilità esclusiva del sinistro alla conducente della macchina, pertanto le domande attoree venivano accolte solo verso di lei e l’assicurazione RCA.
In sede di gravame, veniva modificata l’attribuzione della responsabilità del sinistro, come commisurata in primo grado, e stabilita nella misura dell’80% in capo alla conducente dell’auto e 20% per l’autista del bus. Inoltre, la sentenza [2], per quanto qui di interesse:
- riteneva corretta la stima del danno biologico riportato dal sopravvissuto e liquidato in circa 50 mila euro;
- rigettava la richiesta di danno non patrimoniale da uccisione, proposta dal padre, in relazione alla figlia sopravvissuta 3 giorni, a causa della brevità del periodo di sopravvivenza;
- liquidava il danno da perdita dei prossimi congiunti impiegando le tabelle milanesi del 2010 (e non quelle aggiornate dopo il 2014), aumentando il risarcimento del 25% perché l’appellante aveva perso tutto il nucleo familiare;
La vicenda, articolata e complessa, giunge al vaglio della Corte di Cassazione che, con un’ordinanza didascalica, analizza partitamente molteplici aspetti; nella presente disamina ci soffermeremo, in particolare, sul danno psichico, sul danno da uccisione e sull’applicazione delle tabelle milanesi più recenti.
2. I concetti di validità fisica e capacità lavorativa
Tra le molteplici censure svolte, il ricorrente, marito e padre delle vittime, si duole dell’errata liquidazione del danno biologico operata dai giudici di merito. Egli, a seguito della commorienza del suo nucleo familiare, aveva patito una malattia psichica, acclarata anche dal CTU e stimata in una compromissione del 50% della complessiva validità dell’individuo. Orbene, utilizzando le tabelle milanesi, in relazione all’entità del danno e alla sua età, l’importo avrebbe dovuto superare i 300 mila euro e non i 50 mila effettivamente liquidati. La motivazione della corte d’appello era la seguente: la lesione non incideva sull’integrità psicofisica del danneggiato, ma solo sulla sua capacità lavorativa. La Suprema Corte ritiene fondato il motivo di ricorso; secondo gli Ermellini, infatti, i concetti di validità fisica e capacità lavorativa non sono autonomi – come, invece, emerge dalla motivazione della sentenza gravata – ma legati da un nesso di implicazione unilaterale. Il rapporto è unilaterale, perché la capacità lavorativa si fonda sulla validità biologica; mentre non è vero il contrario. Esemplificando, una persona invalida può conservare una residua capacità di lavoro; mentre chi è inabile al lavoro, è biologicamente invalido. Al lume di quanto sopra, secondo la Cassazione, sostenere – come ha fatto il giudice di merito – che la vittima di un trauma psichico non abbia patito un danno alla salute, ma solo una riduzione della capacità di lavoro, è un’affermazione contraddittoria e illogica. Infatti, «postula l’esistenza dell’effetto (la perdita della capacità) dopo aver negato l’esistenza della causa (l’invalidità)».
La Corte precisa che il danno biologico può scaturire da:
- una lesione psichica,
- una lesione fisica.
Infatti, il danno psichico è pur sempre un danno biologico, «che consiste nell’alterazione o soppressione delle facoltà mentali», si tratta semplicemente di una categoria descrittiva del danno alla salute e, in quanto danno biologico, è suscettivo di accertamento medico-legale e di valutazione in punti percentuali [3].
3. Applicazione delle tabelle milanesi più recenti
Tra le varie censure sollevate, i ricorrenti lamentano che la corte d’appello abbia liquidato il danno (nel 2016), applicando le tabelle milanesi del 2010 e non quelle aggiornate dal 2014, in cui gli importi risultavano aumentati. Anche tale motivo di ricorso viene ritenuto fondato. Infatti, ove la legge non detti specifici criteri per la liquidazione del danno non patrimoniale, essa deve avvenire in via equitativa (art. 1226 c.c.). Il giudice, nella valutazione secondo aequitas, deve considerare:
- la specificità del caso concreto;
- la parità di trattamento a parità di danno (Cass. 12408/2011).
Orbene, per garantire il trattamento paritario, il giudice di merito deve utilizzare i criteri uniformi dettati dalle cosiddette tabelle di Milano, salvo il caso in cui non specifichi le ragioni per le quali, in quel determinato caso concreto, l’applicazione del criterio tabellare sarebbe iniquo. In buona sostanza, nel liquidare il danno non patrimoniale, occorre tenere conto degli aggiornamenti sopravvenuti dopo la decisione di primo grado. Pertanto, se nelle more del giudizio, «il criterio indicato dalla Corte come idoneo a garantire la parità di trattamento venga a mutare, il giudice di merito dovrà liquidare il danno in base ai nuovi criteri condivisi e generalmente applicati al momento della decisione, e non in base a criteri risalenti ed oramai abbandonati» (Cass. 24155/2018; Cass. Ord. 22265/2018; Cass. 25485/2016; Cass. 21245/2016) [4].
4. Il danno non patrimoniale da uccisione: il lessico corretto
Veniamo ora al fulcro dell’ordinanza.
Il ricorrente si duole del rigetto della domanda risarcitoria relativa al danno non patrimoniale patito dalla figlia nei tre giorni di sopravvivenza, prima della sua dipartita. Secondo la corte d’appello, il lasso di tempo di tre giorni, tra il ferimento e la morte della piccola, non era apprezzabile ai fini risarcitori. La Cassazione, prima di analizzare la censura e dichiarare fondato il motivo di ricorso, opera una premessa sulla tipologia di danno di cui trattasi.
La situazione in cui una persona, ferita a causa di un fatto illecito, in seguito muoia, a cagione delle lesioni riportate, rientra nella fattispecie del danno non patrimoniale da uccisione. Nel tempo, tale tipologia di danno è stata descritta ricorrendo a svariate espressioni, scevre di qualsiasi dignità scientifica; a titolo di esempio, si ricordano: danno terminale, danno tanatologico, danno catastrofale, danno esistenziale. La Cassazione ha recentemente ricordato l’esigenza di un maggior rigore linguistico (Cass. S.U. 12310/2015), per «sgombrare il campo di analisi da […] espressioni sfuggenti ed abusate che hanno finito per divenire dei mantra ripetuti all’infinito senza una preventiva ricognizione e condivisione di significato […], (che) resta oscuro e serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l’ambiguità concettuale nonché la pigrizia esegetica». Ciò premesso, gli Ermellini passano alla disamina dei fondamenti del danno non patrimoniale da uccisione: le forme in cui si manifesta, l’invalidità temporanea (e non permanente) che ne deriva, il lasso di tempo apprezzabile per riconoscere la lesione del danno da uccisione, a seconda che rivesta la forma di lesione alla salute o di formido mortis.
5. Le forme del danno da uccisione
Il danno non patrimoniale da uccisione viene sofferto dalla persona che, ferita, sopravviva per un certo tempo e poi muoia a causa delle lesioni riportate. Ferma restando l’unitarietà del pregiudizio, questo si manifesta in due forme:
- la lesione della salute;
1. che ha fondamento medico-legale;
2. che consiste nella rinuncia allo svolgimento delle ordinarie attività durante l’invalidità;3. che sussiste anche in caso di incoscienza della vittima;
- la formido mortis, ossia il turbamento derivante dalla consapevolezza della morte imminente, la lucida agonia,
1. che non ha fondamento medico-legale;2. che consiste in un moto dell’animo;3. che sussiste solo se la vittima sia cosciente e consapevole della propria fine.
Come vedremo, la suddetta distinzione assume particolare rilievo, in quanto il giudice di merito, di fronte ad una situazione simile, per valutare se la vittima abbia trasmesso ai congiunti il diritto al risarcimento, deve acclarare quale tipologia di pregiudizio sia stata effettivamente patita. Pertanto, occorre valutare se vi sia la sussistenza di un danno biologico da invalidità temporanea e/o l’esistenza di un danno non patrimoniale da lucida agonia (qualora la vittima fosse cosciente e consapevole della propria fine).
6. Danno da uccisione: 1) lesione della salute
Il danno alla salute sofferto dalla persona, che ferita, poi, muoia, consiste in un’invalidità temporanea e non permanente. Si ricorda che:
- l’invalidità temporanea indica «lo stato menomativo causato da una malattia, durante il decorso di questa»;
- l’invalidità permanente «designa, invece, lo stato menomativo che residua dopo la cessazione d’una malattia».
Al lume di quanto sopra, emerge come il perdurare di una malattia e l’invalidità permanente siano due situazioni inconciliabili; infatti,
- sinché dura la malattia, permane un’invalidità temporanea;
- quando la malattia cessa, ma vi sono dei postumi, si ha un’invalidità permanente;
- infine, se la malattia conduce alla morte, essa ha causato “solo” un’invalidità temporanea (Cass. Ord. 32372/2018; Cass. 5197/2015; Cass. 7632/2003).
In virtù di quanto sopra esposto, emerge come, in caso di morte da lesioni, sopravvenuta a distanza di tempo, il danno biologico permanente sia inconcepibile.
Al contrario, è ammissibile il danno biologico temporaneo, tuttavia, per potersene affermare l’esistenza, è necessario che la lesione alla salute si sia protratta per un certo tempo. Infatti, per accertare dal punto di vista medico-legale la malattia, si ritiene che il lasso apprezzabile di tempo sia una giornata, ossia 24 ore. Una volta acclarata medicalmente la sussistenza di questo tipo di nocumento, esso è risarcibile a prescindere dalla consapevolezza che ne abbia la vittima; infatti, quel che rileva è il pregiudizio consistente nella perdita della capacità di svolgere le ordinarie occupazioni della quotidianità (Cass. 21060/2016; Cass. 2564/2012). Il danno va liquidato avendo riguardo alle specificità del caso concreto.
7. Danno da uccisione: 2) la formido mortis
La vittima perita dopo un certo tempo dalle lesioni può subire, oltre al danno alla salute di cui sopra, un ulteriore pregiudizio: la sofferenza dovuta alla consapevolezza della morte imminente. Per designare questa situazione si ricorre all’espressione formido mortis, che racchiude la paura della morte, l’agonia provocata dalle ferite, il dispiacere di lasciare i propri cari, la disperazione del perdere la vita e così via. Diversamente dal danno alla salute, tale tipologia di pregiudizio non è suscettiva di accertamento medico- legale e, ai fini della risarcibilità, postula che la vittima sia cosciente. Infatti, se la parte lesa ignora di morire, non può dolersi per questo. Oggetto del risarcimento non è la perdita della possibilità di svolgere le occupazioni della vita quotidiana, ma la sofferenza patita a fronte della morte sopravveniente, pertanto la durata della sopravvivenza non rappresenta un elemento costitutivo del danno. Una sopravvivenza di pochi minuti è sufficiente al morente per percepire l’arrivo della fine, al contrario, una lunga sopravvivenza, caratterizzata dall’incoscienza, esclude questa forma di danno (Cass. Ord. 32372/2018; Cass. S.U. 26972/2008). Quindi, mentre per riconoscere la risarcibilità del danno alla salute è necessaria una sopravvivenza di almeno 24 ore – a prescindere dallo stato di coscienza o incoscienza della vittima – per la sofferenza patita in punto di morte non esiste un limite temporale, ma semplicemente la consapevolezza dell’approssimarsi della fine. Il danno deve essere accertato con gli ordinari mezzi di prova e liquidato in via equitativa, tenuto conto della specificità della fattispecie.
8. Conclusioni
La Suprema Corte, nell’ordinanza in commento, tocca molteplici aspetti del danno non patrimoniale da uccisione; come abbiamo visto, analizza le forme in cui si manifesta, l’invalidità temporanea (e non permanente) che ne scaturisce, il lasso di tempo apprezzabile per riconoscere la lesione del danno da uccisione, a seconda che rivesta la forma di lesione alla salute o della lucida agonia. In particolare, su questo aspetto, gli Ermellini chiariscono che il giudice di merito ha errato nel motivare il rigetto della richiesta risarcitoria, formulata dal padre per la perdita della figlia, sulla scorta del breve periodo di sopravvivenza. Infatti, il giudice del gravame avrebbe dovuto accertare, non solo quanto era sopravvissuta la bambina, ma anche acclarare:
- se la sopravvivenza aveva superato le 24 ore, per stabilire la sussistenza di un danno biologico da invalidità temporanea;
- se la vittima era cosciente e consapevole della propria fine, per valutare l’esistenza di un danno non patrimoniale da lucida agonia.
Sulla base di quanto sopra, la sentenza gravata viene cassata anche su questo punto e trasmessa al giudice del rinvio che, nella decisione, dovrà attenersi al seguente principio di diritto: «la persona che, ferita, non muoia immediatamente, può acquistare e trasmettere agli eredi il diritto al risarcimento di due pregiudizi: il danno biologico temporaneo, che di norma sussisterà solo per sopravvivenze superiori alle 24 ore (tale essendo la durata minima, per convenzione medico-legale, di apprezzabilità dell’invalidità temporanea), che andrà accertato senza riguardo alla circostanza se la vittima sia rimasta cosciente; ed il danno non patrimoniale consistito nella formido mortis, che andrà accertato caso per caso, e potrà sussistere solo nel caso in cui la vittima abbia avuto la consapevolezza della propria sorte e della morte imminente».
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 18056/2019 >> SCARICA IL TESTO PDF
[1] Per completezza, si segnala che la conducente era comproprietaria del mezzo unitamente al marito delle vittime che, al momento del sinistro, era un trasportato.
[2] La sentenza impugnata rigettava, altresì, la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro, presentata dal marito, per carenza di dimostrazione probatoria; rigettava la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale per la perdita del contributo economico da parte della moglie e dei figli; rigettava la domanda di “mala gestio” svolta contro le compagnie assicuratrici per il ritardo nell’adempimento delle obbligazioni risarcitorie. In relazione alla mala gestio, la Suprema Corte ritiene fondato il motivo di ricorso basato sul colposo ritardo nel pagamento delle obbligazioni risarcitorie e formula i seguenti principi:
«nel caso di morte d’una persona trasportata su un veicolo a motore in conseguenza d’uno scontro tra veicoli:
– se non vi è incertezza sulla dinamica del sinistro, gli assicuratori dei veicoli coinvolti, una volta spirato lo spatium deliberandi di cui alla L. 24 dicembre 1969, n. 990, art. 22, si presumono per ciò solo in mora culpata;
– se vi è incertezza sulla dinamica del sinistro, i due assicuratori dei veicoli coinvolti debbono, ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2 prefigurarsi l’ipotesi della corresponsabilità dei rispettivi assicurati, ex artt. 2054 e 2055 c.c., ed il non farlo costituisce per ciò solo una mora culpata.
Questi essendo i criteri da applicare per l’accertamento della mala gestio impropria dell’assicuratore della r.c.a., ne consegue che nel caso di specie la Corte d’appello, dichiarando giustificato il ritardo dei due assicuratori in un caso di morte di tre persone trasportate sul presupposto che il caso concreto presentava delle “particolarità”, ha effettivamente adottato una motivazione imperscrutabile, non spiegando quali fossero tali “particolarità”».
[3] La Suprema Corte cassa la sentenza gravata sotto questo profilo e rinvia al giudice di merito, il quale dovrà: a) valutare se aderire o meno alle risultanze della CTU, attributiva di un’invalidità permanente del 50% (valutazione assente nella sentenza impugnata); b) in caso di dissenso dalla CTU, dovrà motivare la propria scelta; c) in caso di adesione alla CTU, dovrà esporre i criteri di monetizzazione del danno alla salute.
[4] Il principio sopra esposto incontra una deroga: l’ipotesi in cui il debitore, al momento della decisione, abbia adempiuto spontaneamente la propria obbligazione; «in tal caso, soltanto l’esattezza dell’adempimento va valutata in base al criterio di liquidazione generalmente applicato al momento della solutiospontanea, e non al momento – successivo della decisione sulla esattezza dell’adempimento» (Cass. 5013/2017).

Creditore del condominio può aggredire i contributi dovuti dai singoli condomini
Si possono espropriare i crediti del condominio nei confronti dei singoli condomini per i contributi dovuti?
Il creditore del condominio che disponga di un titolo esecutivo nei confronti del condominio stesso, ha facoltà di procedere all’espropriazione di tutti i beni condominiali, ai sensi degli artt. 2740 e 2910 c.c., ivi inclusi i crediti vantati dal condominio nei confronti dei singoli condomini per i contributi dagli stessi dovuti in base a stati di ripartizione approvati dall’assemblea, in tal caso nelle forme dell’espropriazione dei crediti presso terzi di cui agli artt. 543 c.p.c. e ss.
È questo il principio di diritto sancito dalla Suprema Corte nella sentenza 14 maggio 2019, n. 12715.
Nella fattispecie, un creditore aveva agito in via esecutiva nei confronti del condominio procedendo al pignoramento dei crediti “da quest’ultimo vantati nei confronti di alcuni condomini per contributi in base a una sentenza di condanna al pagamento delle spese processuali relative ad un giudizio di cognizione”.
Il condominio proponeva quindi opposizione all’esecuzione, rigettata sia in primo che in secondo grado.
Ricorreva, pertanto, in Cassazione l’amministratore del condominio e il controricorrente eccepiva l’inammissibilità del ricorso per difetto della relativa autorizzazione dell’assemblea dei condomini.
La Suprema Corte, nell’esaminare la vicenda, rilevava dapprima che il ricorso dell’amministratore era stato effettivamente proposto senza preventiva autorizzazione assembleare (né successiva ratifica) e pertanto, richiamando la giurisprudenza costante della Cassazione, dichiarava l’inammissibilità del ricorso trattandosi di “controversie che non rientrano tra quelle per le quali (l’amministratore) è autonomamente legittimato ad agire ai sensi dell’art. 1130 c.c. e art. 1131 c.c., comma 1, nè può essere concesso un termine per la regolarizzazione, ai sensi dell’art. 182 c.p.c., allorchè il rilievo del vizio, in sede di legittimità, sia stato sollevato non d’ufficio, ma dalla controparte (come nel caso in esame)”.
Il giudice di legittimità ha comunque ritenuto di esaminare nel merito il ricorso ex art. 363 c.p.c., comma 3, in considerazione della particolare importanza della questione di diritto che con esso è posta, relativa alla “possibilità, per il creditore del condominio che abbia conseguito un titolo esecutivo nei confronti del condominio stesso, di procedere all’espropriazione dei crediti del condominio nei confronti dei singoli condomini per i contributi dagli stessi dovuti”.
Tale questione per la Corte deve essere risolta in senso affermativo: affinchè, infatti, l’espropriazione dei crediti vantati dal condominio verso i singoli condomini per contributi sia legittima è sufficiente che sia configurabile, sul piano sostanziale, un effettivo rapporto obbligatorio tra condominio e singolo condomino avente ad oggetto il pagamento dei contributi condominiali (oltre che, ovviamente, un rapporto obbligatorio tra creditore e condominio).
Ed è innegabile che sia configurabile sul piano sostanziale un rapporto obbligatorio tra condominio e singolo condomino: una espressa disposizione normativa, l’art. 63 disp. att. c.c. prevede infatti che l’amministratore possa addirittura ottenere un decreto ingiuntivo (immediatamente esecutivo), in favore del condominio e contro il singolo condomino per il pagamento dei contributi condominiali (in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea).
Essendo configurabile sul piano sostanziale un credito del condominio (rappresentato dal suo amministratore) nei confronti dei singoli condomini, laddove esista altresì un titolo esecutivo in favore di un terzo e contro lo stesso condominio (sempre rappresentato dall’amministratore), in mancanza di una norma che lo vieti espressamente, tale credito può certamente essere espropriato dal creditore del condominio, ai sensi degli artt. 2740, 2910 c.c. e 543 c.p.c. e ss.
continua