
Consumi anomali: il gestore del servizio idrico deve informare l’utente
La III Sezione Civile della Corte di Cassazione, nell’ordinanza 15 settembre 2021, n. 24904 (testo in calce), ha precisato che è onere gravante sulla società di gestione del servizio idrico integrato, di informare l’utente sull’eventuale presenza di consumi anomali.
La vicenda
Veniva promosso un giudizio nei confronti della società esercente il locale servizio idrico, dove veniva richiesto il risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’inadempimento di quest’ultima al suo obbligo di segnalarle i consumi anomali, in virtù di un rapporto contrattuale di somministrazione di acqua potabile.
La domanda veniva accolta dal Giudice di Pace, che condannava la società di gestione a pagare, in favore dell’attrice, l’importo di Euro 3.312,10, oltre accessori.
Tribunale e Cassazione hanno confermato la decisione di primo grado.
Gli obblighi gravanti sulle parti del contratto di somministrazione idrica in caso di perdita occulta
La società ha dedotto la violazione e/o la falsa applicazione delle previsioni della Carta del Servizio Idrico Integrato, nonchè di quelle del Regolamento del Servizio di distribuzione e fornitura di acqua potabile, da parte del giudice di merito, nella ricostruzione e nella individuazione degli obblighi rispettivamente gravanti sulle parti del contratto di somministrazione di acqua potabile, con riguardo all’ipotesi, verificatasi nella specie, di una perdita occulta nell’impianto idrico dell’utente che abbia determinato rilevanti consumi anomali, nonché nella liquidazione del conseguente danno.
L’invio della fattura priva di segnalazione del carattere anomalo dei consumi
Secondo i giudici ermellini i colleghi di merito, richiamando gli obblighi di correttezza e buona fede gravanti sulle parti del contratto di somministrazione idrica, ha affermato che il semplice invio di una fattura commerciale relativa ai consumi anomali registrati, a distanza di oltre due mesi dalla rilevazione degli stessi e senza alcuna espressa segnalazione del loro carattere anomalo, non consente di ritenere correttamente adempiuto l’obbligo previsto per l’azienda fornitrice dalla Carta del Servizio Idrico Integrato.
L’onere per l’utente di verificare la funzionalità dell’impianto
Ha inoltre osservato che l’adempimento o meno dell’utente all’onere di verificare il regolare funzionamento dell’impianto e del contatore, nonchè di effettuare la cd. autolettura, non esclude, di per sè, la sussistenza dell’inadempimento dell’azienda somministrante al proprio (distinto) obbligo di segnalazione dei consumi anomali, con conseguente diritto dell’utente, in caso di omissione, al risarcimento del danno.
L’inadempimento degli obblighi informativi da parte del gestore
La decisione impugnata si è sottratta, quindi, alle censure formulate dalla società, con riguardo all’affermazione della sussistenza dell’inadempimento contrattuale della stessa alle obbligazioni su di essa gravanti a tutela del diritto dell’utente di essere correttamente, espressamente e tempestivamente informato su eventuali consumi anomali, come anche con riguardo al suo obbligo di risarcire il danno conseguente.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 24904/2021 >> SCARICA IL TESTO PDF
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Effetti indesiderati del farmaco: il bugiardino non esclude la responsabilità del produttore
La disciplina del Codice del Consumo sui prodotti difettosi si applica anche ai farmaci. Il consumatore che abbia subito dei danni alla salute in seguito all’assunzione del medicinale deve dimostrare il difetto del prodotto, il danno e il nesso causale. Il produttore non va esente da responsabilità per il solo fatto di aver indicato nel foglietto illustrativo un’informazione sulla generica “non sicurezza” del prodotto.
Al contrario, è necessaria un’avvertenza specifica che consenta al consumatore di acquisire la consapevolezza circa il verificarsi del pericolo descritto nel bugiardino a causa dell’uso del farmaco. Solo in tal modo, l’utilizzatore può effettuare una valutazione consapevole tra rischi e benefici.
È quanto ha affermato la Corte di Cassazione, con la sentenza 10 maggio 2021, n. 12225 (testo in calce), con la quale ha confermato la condanna al risarcimento del danno di una nota casa farmaceutica in relazione al caso di un medico che, dopo l’assunzione del farmaco, aveva manifestato una forma di distrofia muscolare (miopatia dei cingoli).
La vicenda
Un medico di base assumeva un farmaco – prodotto da una nota casa farmaceutica – dopodiché ne interrompeva l’assunzione a causa della grave patologia che ne era derivata. Il farmaco, infatti, gli aveva provocato una miopatia dei cingoli (ossia una sorta di distrofia muscolare). Il danneggiato agiva in giudizio contro il produttore, anche in considerazione del fatto che il medicinale era stato ritirato dal mercato. Infatti, il principio attivo impiegato (cerivastatina) comportava un forte rischio di malattie del muscolo. In primo grado, la società produttrice veniva condannata al risarcimento del danno, in quanto il giudice riteneva provato il nesso causale tra l’assunzione del medicinale e la malattia. In sede di gravame, la pronuncia veniva parzialmente confermata, con una diminuzione del quantum risarcitorio. Si giunge così in Cassazione.
La nozione di prodotto difettoso nel Codice del Consumo
Il Codice del Consumo (d. lgs. 206/2005), all’art. 117 c. 1, definisce come difettoso il prodotto quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui:
- il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le avvertenze fornite;
- l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e i comportamenti che, in relazione ad esso, si possono ragionevolmente prevedere;
- il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione.
La giurisprudenza ha precisato che la nozione di difetto è riconducibile:
- alla nozione di difetto di fabbricazione,
- oppure alle ipotesi in cui manchino le istruzioni.
Il difetto non va confuso:
- con il vizio previsto dall’art. 1490 c.c. in materia di compravendita. Il vizio, infatti, può consistere in una mera imperfezione che non determina una insicurezza del bene;
- con il difetto di conformità relativo alla vendita di beni di consumo che postula un pericolo per il soggetto che fa uso del prodotto o per coloro che si trovino in contatto con esso (Cass. 13458/2013).
Le norme di fonte comunitaria, volte a realizzare un’armonizzazione globale, non trovano applicazione in via esclusiva, ma si affiancano, senza sostituirsi, alla disciplina dettata dall’ordinamento interno (Cass. 13432/2010; Cass. 8981/2005, Cass. 28626/2019). Inoltre, la regolamentazione del Codice del consumo non esclude l’operatività della norma codicistica di cui all’art. 2050 c.c. (responsabilità per esercizio di attività pericolose), stante la diversità di ratio e ambito applicativo (Cass. 6587/2019).
Il prodotto difettoso e la sicurezza
Il prodotto è difettoso se non offre la sicurezza offerta normalmente dagli altri esemplari della medesima serie. Quindi, il parametro di riferimento è il “prodotto sicuro” così come definito dal Codice del Consumo (art. 103). “Il livello di sicurezza prescritto, al di sotto del quale il prodotto deve considerarsi difettoso, non corrisponde a quello della sua più rigorosa innocuità, dovendo farsi riferimento ai requisiti di sicurezza dall’utenza generalmente richiesti in relazione alle circostanze specificamente indicate all’art. 117 Codice del Consumo o ad altri elementi in concreto valutabili e concretamente valutati dal giudice di merito, nell’ambito dei quali debbono farsi rientrare gli standards di sicurezza eventualmente imposti dalle norme in materia” (Cass. 29828/2018; Cass. 13458/2013).
Il danneggiato e il produttore: il riparto dell’onere della prova
La mera verificazione del danno non costituisce la prova della pericolosità del prodotto in normali condizioni di uso. Il danno può far presumere una indefinita pericolosità che, però, è insufficiente a fondare la responsabilità del produttore. Infatti, il produttore è responsabile solo laddove sia accertato che la pericolosità ponga il prodotto al di sotto del livello di garanzia e di affidabilità richiesto dalle leggi in materia o dall’utenza (Cass. 13458/2013; Cass. 25116/2010).
Quanto all’onere della prova:
- il danneggiato deve provare il difetto, il danno, e la connessione causale tra difetto e danno (art. 120 c. 1 Cod. Cons.);
- il produttore deve provare i fatti che possono escludere la responsabilità (prova liberatoria); è sufficiente dimostrare che, tenuto conto delle circostanze, è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione (art. 120 c. 2 Cod. Cons.) o che all’epoca non era riconoscibile in base allo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche (Cass. 13458/2013).
La prova della difettosità può essere data anche tramite presunzioni semplici.
Per completezza espositiva, si ricorda che la responsabilità da prodotto difettoso ha natura presunta, e non oggettiva, poiché prescinde dall’accertamento della colpevolezza del produttore, ma non anche dalla dimostrazione dell’esistenza di un difetto del prodotto (Cass. 3258/2016).
Effetti indesiderati del farmaco segnalati nel bugiardino
L’autorizzazione al commercio non esclude la responsabilità civile del produttore. Così dispone l’art. 39 d.lgs. 219/2006 recante “Attuazione della direttiva 2001/83/CE (e successive direttive di modifica) relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonché della direttiva 2003/94/CE”. La valutazione della pericolosità non attiene solo ai dati scientifici ma anche alla percezione e alle aspettative del consumatore. Ad escludere la responsabilità del produttore, non è sufficiente la prova dello stato dell’arte.
Nel caso in esame, il produttore del farmaco si difende sostenendo che gli effetti indesiderati fossero indicati sul bugiardino. Secondo le difese del ricorrente, un prodotto è difettoso quando è inadatto al commercio e non quando provoca effetti collaterali di cui l’utenza è informata nelle “avvertenze”. Inoltre, nella fattispecie oggetto di scrutinio, gli effetti indesiderati del farmaco si erano combinati ad altri fattori estrinseci, quali l’obesità e l’ipertensione del danneggiato.
La Suprema Corte rileva come il giudice di merito abbia accertato il nesso causale tra l’assunzione del farmaco e la patologia contratta dal medico. Inoltre, è stato ravvisata l’esistenza della difettosità del farmaco al momento della commercializzazione, stante la presenza del principio attivo (cerivastatina) che comporta un rischio ai malattie del muscolo.
La responsabilità del produttore non è esclusa dalla circostanza di aver fornito, tramite il foglietto illustrativo, un’informazione sulla generica “non sicurezza” del prodotto (Cass. 6007/2007).
Al contrario, è necessaria un’avvertenza specifica che consenta al consumatore di acquisire la consapevolezza circa il verificarsi del pericolo descritto nel bugiardino a causa dell’uso del farmaco. Solo in tal modo, l’utilizzatore può effettuare una valutazione consapevole tra rischi e benefici. Inoltre, nel caso in cui il consumatore si esponga volontariamente al rischio, potrà eventualmente, ravvisarsi un suo concorso di colpa (ex art. 1227 c.c.), in caso di sottovalutazione o di abuso del farmaco.
Conclusioni
In conclusione, la Suprema Corte rigetta il ricorso presentato dalla casa farmaceutica e conferma la sentenza gravata. Infatti, è stato acclarato il difetto, il danno, e la connessione causale tra difetto e danno, a nulla valendo la generica avvertenza sulla “non sicurezza del prodotto” contenuta nel foglietto illustrativo del medicinale.
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Appalto e danno a terzi: quando risponde il committente?
La Corte di Cassazione, con la sentenza dell’11 novembre 2020 – 17 marzo 2021 n. 7553 (testo in calce), in circa 35 pagine di motivazione, fa il punto sulla responsabilità del committente e dell’appaltatore in caso di danni a terzi.
Dopo un’articolata disamina della giurisprudenza sul punto, gli ermellini si soffermano sulla responsabilità da cose in custodia, affermando che il committente sia sempre gravato della responsabilità oggettiva ex art. 2051 c.c. nei confronti dei terzi che subiscano dei danni a seguito dell’esecuzione del contratto di appalto.
La consegna dell’immobile all’appaltatore, ai fini dell’esecuzione delle opere stesse, non esclude la custodia del bene. Infatti, l’unico limite per tale forma di responsabilità è rappresentato dal caso fortuito, che non può ricondursi automaticamente a qualsiasi inadempimento dell’appaltatore. Infine, possono sussistere ulteriori responsabilità del committente e/o dell’appaltatore ai sensi dell’art. 2043 c.c.
La vicenda
I proprietari di un immobile convenivano in giudizio le autostrade (committente) e la ditta esecutrice dei lavori (appaltatore) per i danni subiti dalla loro abitazione. Chiedevano il ristoro del pregiudizio patito (circa 54 mila euro) oltre al danno da deprezzamento (circa 124 mila euro), a titolo di responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.) e responsabilità per danno da cosa in custodia (art. 2051 c.c.). In primo grado, il Tribunale condannava unicamente la ditta appaltatrice al risarcimento di circa 91 mila euro. In sede di gravame, il giudice d’appello condannava solidalmente anche la società committente per i danni subiti dall’immobile a seguito dello svolgimento dei lavori. Si giunge così in Cassazione.
La natura pubblica o privata dell’appalto
Il giudice del gravame ha affermato che non si possa escludere la responsabilità del committente pubblico, visto il suo maggiore potere di controllo e ingerenza nell’esecuzione dei lavori rispetto ad un committente privato. Infatti, ha operato il seguente distinguo:
- nell’appalto tra privati, il direttore dei lavori è eventuale, può essere nominato anche dall’appaltatore e non può ingerirsi al punto da impartire ordini all’impresa;
- nell’appalto di opere pubbliche, destinate a soddisfare un interesse generale, il committente gode di un potere-dovere di ingerenza nell’esecuzione dell’opera e limita l’autonomia dell’appaltatore.
La Corte territoriale, quindi, affermando la responsabilità del committente, ha fondato la propria decisione sulla natura pubblica dell’appalto.
I poteri di ingerenza del committente pubblico
Secondo la Cassazione, “in tema di appalto di opere pubbliche, gli specifici poteri di ingerenza della p.a. nella esecuzione dei lavori, con la facoltà, a mezzo del direttore, di disporre varianti e di sospendere i lavori stessi, ove potenzialmente dannosi per i terzi, comportano la esclusione di ogni esenzione da responsabilità per l’ente committente” (Cass. 13266/2000; Cass.4591/2008; Cass. 1263/2012; Cass. 25408/2016).
Danni a terzi derivanti dall’esecuzione di opere appaltate
Il tema dei danni a terzi derivanti dall’esecuzione di opere appaltate ha prodotto, negli atti, una copiosa giurisprudenza caratterizzata da tre punti fermi:
- l’autonomia dell’appaltatore da cui discende la sua responsabilità in caso di danni a terzi,
- l’esonero di responsabilità del committente privato,
- la responsabilità o corresponsabilità del committente pubblico stante il potere di ingerenza.
In linea generale, la giurisprudenza è costante nel ritenere la responsabilità dell’appaltatore verso i terzi a cagione dell’autonomia che il contratto di appalto gli garantisce. Viceversa, quando l’appaltatore è un mero esecutore (nudus minister) e, quindi, la sua autonomia viene neutralizzata, la responsabilità per i danni arrecati ai terzi è ascrivibile al committente.
Appaltatore come mero esecutore e appaltatore autonomo
La giurisprudenza nel valutare la sussistenza (o meno) della responsabilità del committente per i danni a terzi ha, da sempre, operato la distinzione tra la figura tradizionale dell’appaltatore, dotato di piena autonomia, e quella del semplice esecutore. Al di là di tale distinguo, l’indipendenza dell’appaltatore non può spingersi al punto di vietare al committente di controllare i lavori per verificare che l’opera sia conforme a quanto pattuito (Cass. 1791/1956). Inoltre, occorre valutare anche la natura dell’opera. Infatti, è ravvisabile la responsabilità del committente:
- per la natura pregiudizievole del suo progetto,
- e per la concreta modalità di esecuzione dell’appalto, nel caso di ingerenze, come la nomina di un direttore dei lavori.
Quindi, alla responsabilità dell’appaltatore, si aggiunge la responsabilità del committente verso i terzi “quale effetto diretto di un fatto proprio di costui” qualora il committente “si sia ingerito, direttamente o attivamente, nell’esecuzione materiale dell’opera e in conseguenza di tale sua ingerenza derivi il danno del terzo” (Cass. 1634/1968).
La responsabilità nell’appalto di opere pubbliche
In un appalto di opere pubbliche il committente è la Pubblica Amministrazione e la finalità consiste nel perseguimento di un interesse pubblico. Inoltre, esiste una disciplina specifica, si pensi, ad esempio, all’obbligatorietà della direzione lavori. In ogni caso, permane il dovere dell’appaltatore di adottare tutti i mezzi idonei per eseguire correttamente l’opera, anche a tutela dei diritti di terzi. Pertanto, può emergere una pluralità di responsabilità:
- quella dell’appaltatore per i danni cagionati a terzi nell’esecuzione dell’opera,
- a cui si somma quella della pubblica amministrazione (committente) “quando il fatto dannoso sia stato posto in essere in esecuzione del progetto o di direttive impartite da essa”, amministrazione che ha pure responsabilità esclusiva “quando abbia rigidamente vincolato l’attività dell’appaltatore, sì da neutralizzare completamente la sua libertà di decisione” (Cass. 4050/1984).
Quindi, sull’appaltatore di opere pubbliche, sebbene meno autonomo, grava comunque una responsabilità per i danni ai terzi derivanti dall’esecuzione dell’opera. In particolare, sussiste:
- una responsabilità concorrente e solidale del committente, se il fatto dannoso è stato compiuto “in esecuzione del progetto o di direttive” del committente,
- una responsabilità esclusiva del committente, solo quando l’ingerenza della P.A. escluda ogni autonomia dell’appaltatore nell’organizzazione ed esecuzione dei lavori
Appalto pubblico: responsabilità del committente e tutela dei terzi
La Corte rileva come, negli appalti privati, la responsabilità del committente verso i terzi sia meramente eventuale, mentre negli appalti pubblici sia da considerarsi costante. I terzi sono tutelati da eventuali danni proprio in ragione della responsabilità della P.A. Essa ha il potere di autorizzazione, di controllo, di ingerenza nell’esecuzione dei lavori, con facoltà, tramite il direttore dei lavori, di disporre varianti e anche di sospendere i lavori se potenzialmente dannosi ai terzi (Cass. 4591/2008; Cass. 1263/2012; Cass. 25408/2016; Cass. 32991/2019). Alla responsabilità dell’appaltatore può aggiungersi quella della P.A. solo se essa abbia neutralizzato ogni facoltà decisionale dell’appaltatore (Cass. 14905/2002; Cass. 11356/2002; Cass. 519/2003). La responsabilità del committente va rapportata all’effettivo esercizio dei suoi poteri (Cass. 17697/2011).
La giurisprudenza prevede una responsabilità o corresponsabilità del committente:
- nel caso in cui l’appaltatore sia un mero esecutore (nudus minister),
- in caso di specifica violazione di regole di cautela ex art. 2043 c.c.,
- in caso di riferibilità al committente stesso dell’evento per sua culpa in eligendo, ad esempio, scegliendo un’impresa inadeguata (Cass. 10588/2008; Cass. 18757/2011).
La custodia del bene nell’esecuzione di opere in appalto
Nella fattispecie in esame, è emersa anche la problematica della custodia dell’immobile coinvolto nei lavori e della correlativa responsabilità (art. 2051 c.c.). Il giudice del gravame aveva radicato la responsabilità del committente sul paradigma dell’appalto pubblico, senza pronunciarsi sulla questione della custodia, sollevata, invece, dai terzi danneggiati. La società committente negava qualsiasi responsabilità, in quanto, durante i lavori, il potere di controllo sull’area del cantiere grava sull’appaltatore e viene interrotto il normale rapporto tra il bene e il suo proprietario. Invero, non sempre il rapporto tra la res e il titolare viene interrotto dal contratto di appalto. Infatti, in alcune pronunce, è stato affermato che, se la strada pubblica, oggetto di lavori, rimane aperta al transito, permane la responsabilità in capo al proprietario, il quale resta corresponsabile con l’appaltatore verso i terzi (Cass. 19474/2005; Cass. 20825/2006; Cass. 12425/2008; Cass. 19129/2011).
Quindi, occorre operare il seguente distinguo:
- se il committente trasferisce integralmente all’appaltatore il potere di fatto sul bene, ciò determina la translatio (ossia il passaggio) della custodia e del correlato obbligo di vigilanza all’appaltatore (Cass. 5609/2001; Cass. 19474/2005);
- se il committente non trasferisce totalmente all’appaltatore il potere di fatto sull’immobile, grava sul primo il dovere di custodia e vigilanza e la conseguente responsabilità ex art. 2051 c.c. (Cass. 15734/2011; Cass. Ord. 11671/2018).
Solitamente, il trasferimento della custodia del bene si effettua solo se essenziale all’esecuzione dell’opera.
Il committente resta custode del bene
Il custode non può liberarsi della sua posizione di garanzia semplicemente con la conclusione di un contratto di appalto. In tal modo, infatti, si eluderebbe la funzione della disciplina della responsabilità per i danni causati dalle cose. Ai sensi dell’art. 2051 c.c., il custode non risponde dei danni a terzi solo se sussiste il caso fortuito. Pertanto, secondo una recente pronuncia (Cass. 23442/2018), la permanenza della qualità di custode comporta l’onere, per il committente, di dimostrare che l’attività dell’appaltatore integri un caso fortuito, vale a dire non sia prevedibile o evitabile. In base a tale lettura interpretativa “l’appalto non esclude affatto la custodia, ma è, al contrario, un modo di esercizio di quest’ultima”. In altre parole, l’appalto non comporta la perdita della custodia.
Nessuna esclusione di responsabilità per il custode
La consegna del bene all’appaltatore non equivale alla correlativa consegna del ruolo di custode. Diversamente opinando, sarebbe come realizzare un esonero contrattuale della responsabilità nei confronti dei terzi che, però, non sono parte del contratto. La clausola di un contratto di appalto che ascriva all’appaltatore la responsabilità esclusiva per tutti i danni che i terzi dovessero subire dall’esecuzione delle opere non può essere invocata dal committente. Infatti, una simile clausola opera solo nei rapporti fra i contraenti (appaltatore e committente) ma “non può vincolare il terzo a dirigere verso l’una, anziché verso l’altra parte, la pretesa nascente dal fatto illecito o cagionato dall’esecuzione del contratto” (Cass. 2363/2012). Si tratta dell’applicazione del generale principio di relatività del contratto (art. 1372 c.c.). In buona sostanza, l’appalto non vincola il terzo, il quale mantiene il proprio diritto risarcitorio nei confronti del committente/custode.
I supremi giudici esemplificano la fattispecie sostenendo che:
- rispetto all’appaltatore, il soggetto è un committente,
- rispetto al terzo, è un custode.
La Cassazione sottolinea come, nel tempo, la giurisprudenza abbia dato grande rilievo all’autonomia dell’appaltatore finendo per neutralizzare l’incidenza dell’art. 2051 c.c. (responsabilità per cose in custodia). Il rapporto con i terzi, ossia con i soggetti estranei al contratto, è extracontrattuale, pertanto, ad esso, si applicano le tutele extracontrattuali. In tal senso, si porta come esempio il contratto di locazione, in cui la consegna del bene al conduttore non incide sulla custodia del locatore a tutela dei terzi (Cass. 23442/2018; Cass. 30729/2019).
Conclusioni: il principio di diritto
Dopo un ampio percorso in cui viene ricostruita la giurisprudenza in materia, la Suprema Corte rigetta il ricorso della società committente dei lavori ed enuncia il seguente principio di diritto:
- «nei confronti dei terzi danneggiati dall’esecuzione di opere, effettuate in forza di contratto di appalto, il committente è sempre gravato della responsabilità oggettiva di cui all’art. 2051 c.c., la quale non può venir meno per la consegna dell’immobile all’appaltatore ai fini dell’esecuzione delle opere stesse, bensì trova limite esclusivamente nel caso fortuito; il che naturalmente non esclude ulteriori responsabilità ex art. 2043 c.c. del committente e/o dell’appaltatore».
Inoltre, il caso fortuito, unico limite alla responsabilità oggettiva, non può automaticamente coincidere con l’inadempimento dell’appaltatore degli obblighi contrattualmente assunti nei confronti del committente. L’imprevedibilità e inevitabilità che connotano il fortuitus casus, devono riguardare una “condotta dell’appaltatore non percepibile in toto dal committente che – adempiendo così rettamente il suo obbligo custodiale – abbia seguito l’esecuzione del contratto con un continuo e adeguato controllo, eventualmente tramite un esperto direttore dei lavori”.
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Pregiudizio patito dai prossimi congiunti è danno diretto, non riflesso
Il danno sofferto dai familiari può desumersi presuntivamente anche dal legame parentale, non è necessario lo sconvolgimento delle abitudini di vita (Cass. Ord. 7748/2020).
Il danno subito dai congiunti, a causa delle lesioni riportate da un loro caro per fatto illecito altrui, è un danno diretto, non riflesso. Si tratta, infatti, della diretta conseguenza della lesione patita dal loro parente; la suddetta lesione rappresenta un fatto plurioffensivo, con vittime diverse, ma parimenti dirette. Nella prassi, per mere esigenze descrittive, si parla impropriamente di vittime secondarie e di danno riflesso.
Così ha deciso la Corte di Cassazione, sez. III civile, con l’ordinanza 8 aprile 2020, n. 7748 (testo in calce).
La vicenda
Un’auto si scontrava con un motorino; in seguito al sinistro, il conducente del motoveicolo decedeva e il trasportato subiva delle lesioni gravi. Il giudice di primo grado acclarava una responsabilità del 70% in capo al conducente della macchina e del 30% in capo al centauro. Il terzo trasportato veniva considerato responsabile del danno a sé stesso nella misura del 10%. Al passeggero veniva riconosciuto il risarcimento del danno alla persona e lo stesso ai suoi congiunti, come danno di riflesso. Il terzo trasportato e i suoi familiari impugnavano la sentenza, ma il gravame veniva rigettato. In particolare, il giudice di merito considerava non provato il danno invocato dai congiunti, in quanto non dimostrabile sulla mera base del rapporto di parentela. Inoltre, escludeva per il trasportato il risarcimento del danno morale e del danno alla capacità lavorativa per difetto di prova [1]. Si giunge così in Cassazione.
Il danno patito dai prossimi congiunti ammette la prova presuntiva
Come abbiamo visto, il giudice del gravame ha escluso il ristoro del danno, considerando non provato il pregiudizio patito dai congiunti. I parenti lamentavano un danno non patrimoniale come conseguenza delle gravi lesioni subite dal loro caro. Ebbene, secondo la ricostruzione della Corte d’Appello, «un danno dei congiunti, come conseguenza delle lesioni inferte al parente, è ipotizzabile solo se consistente in un totale sconvolgimento delle abitudini di vita del nucleo familiare su cui si sono riverberate quali conseguenze gli effetti dell’evento traumatico subito dal familiare». Nel caso di specie, la suddetta prova non era stata fornita, in quanto non poteva desumersi dal mero legame parentale.
La Suprema Corte censura tale decisione e sostiene che il nocumento consistente nella sofferenza morale (danno non patrimoniale), patito dal prossimo congiunto, a causa delle gravi lesioni riportate dal parente in seguito al fatto illecito altrui, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva. In particolare, occorre fare riferimento alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta sulla vita dei familiari (Cass. 11212/2019; Cass. 2788/2019; Cass. 17058/2017). Sul punto, la giurisprudenza di legittimità, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, afferma che, in assenza di lesione alla salute, deve essere valutato e accertato ogni vulnus arrecato ad altro valore costituzionalmente tutelato. È necessario analizzare sia la sofferenza morale che la privazione, diminuzione o modificazione delle attività dinamico-relazionali svolte dai familiari prima della lesione patita dal loro congiunto (Cass. 23469/2018).
Il danno dei congiunti come danno diretto
I giudici di legittimità precisano che i familiari della vittima di un fatto illecito altrui possono subire:
- un danno morale, consistente nella sofferenza d’animo
- un danno biologico, ad esempio una malattia.
Ambedue le poste di danno non necessariamente producono uno sconvolgimento delle abitudini di vita. Infatti, il danno risarcibile ai congiunti per le lesioni patite dal parente non si esauriscono nel “totale sconvolgimento delle abitudini di vita”. Il pregiudizio sofferto dai familiari è un danno diretto: spesso si parla impropriamente di danno riflesso, facendo riferimento alla vittima primaria (la vittima delle lesioni) e alle vittime secondarie (i congiunti). Invero, «il danno subito dai familiari è diretto, non riflesso, ossia è la diretta conseguenza della lesione inferta al parente prossimo». Infatti, la lesione è un fatto plurioffensivo, che produce vittime diverse, ma parimenti dirette. Nella prassi, per mere esigenze descrittive, si parla impropriamente di vittime secondarie e di danno riflesso.
L’incidenza sulle abitudini di vita e il legame parentale
Alla luce di quanto sopra esposto, emerge come la lesione subita dalla vittima possa provocare nei congiunti sia un danno morale (come la sofferenza d’animo) che un danno biologico (ossia una perdita vera e propria di salute). I suddetti pregiudizi possono essere provati anche tramite presunzioni, infatti, «non v’è motivo di ritenere questi pregiudizi [siano] soggetti ad una prova più rigorosa degli altri». Tra le presunzioni ammissibili rileva il rapporto di stretta parentela tra la vittima cosiddetta primaria e quelle secondarie. Nella fattispecie esaminata, i congiunti erano i genitori e i fratelli del ragazzo passeggero del motorino incidentato.
Conclusioni
Secondo la pronuncia in commento, il rapporto di stretta parentela intercorrente tra la cosiddetta vittima primaria e le vittime secondarie (i congiunti) fa presumere, in base all’id quod plerumeque accidit – ossia ciò che solitamente accade – che genitori e fratelli soffrano per le gravi lesioni permanenti riportate dal congiunto. Tali sofferenze non devono necessariamente tradursi in uno “sconvolgimento delle abitudini di vita”, «in quanto si tratta di conseguenze estranee al danno morale, che è piuttosto la soggettiva perturbazione dello stato d’animo, il patema, la sofferenza interiore della vittima, a prescindere dalla circostanza che influisca o meno sulle abitudini di vita».
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Delusi dal pranzo di nozze? Il mancato pagamento è legittimo
Siamo in un piccolo Comune siciliano, due giovani innamorati decidono di convogliare a nozze e trovato il posto giusto danno il via ai festeggiamenti con amici e parenti.
Tuttavia gli sposi non ottemperavano al pagamento del pranzo nuziale e il ristoratore si rivolgeva quindi al Giudice di Pace di Caltagirone al fine di ottenere il decreto ingiuntivo con il quale veniva ordinato alla coppia di pagare la somma di 3.500,00 euro a titolo di corrispettivo per il servizio di ristorazione svolto.
La coppia proponeva opposizione al decreto ingiuntivo sostenendo di non essere stati soddisfatti dal servizio e chiedendo quindi la revoca del decreto ingiuntivo per inadempimento del ristoratore.
Il Giudice di Pace di Caltagirone accoglieva l’opposizione a decreto ingiuntivo presentata dai due sposini revocando quindi il decreto ingiuntivo. Il ristoratore proponeva appello innanzi al Tribunale di Caltagirone avverso la suddetta sentenza, il quale confermava la decisione del giudice di prime cure.
Il proprietario dell’agriturismo non demordeva e presentava ricorso innanzi alla corte di Cassazione sostenendo che “il Tribunale si sarebbe limitato ad affermare che, in primo grado, i neo sposini avevano eccepito l’inesatto adempimento e allegato molteplici difformità delle prestazioni eseguite dal medesimo rispetto a quelle dovute mentre il ricorrente non avrebbe dato prova del suo esatto adempimento”.
Il ristoratore ricorrente sosteneva di avere, invece, fornito la prova dell’esattezza e della correttezza del suo adempimento attraverso le risposte date dagli sposi in sede di interrogatorio formale e quanto riferito da un testimone.
Il ricorrente inoltre lamentava che mancherebbe, nel percorso motivazionale del Tribunale, il giudizio di comparazione in ordine al comportamento di entrambe le parti, volto a stabilire quale di esse fosse responsabile delle «trasgressioni maggiormente rilevanti e, conseguentemente, causa del comportamento della controparte e dell’alterazione del sinallagma» così come mancherebbe «il giudizio di proporzionalità tra le prestazioni rispetto alla funzione economico-sociale del contratto».
Occorre infatti premettere che ai sensi dell’art. 1453 c.c. nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto (salvo in ogni caso il risarcimento del danno), spetta quindi al contraetene inadempiente dare prova di aver invece esattamente adempiuto alla prestazione.
Tuttavia può darsi che entrambe le parti si rendano inadempienti tale situazione si può configurare sia nel caso in cui le prestazioni reciproche debbano essere adempiute in tempi differenti, sia nel caso in cui debbano essere adempiute contestualmente.
In passato era emersa la tesi secondo cui il giudice, in caso di contrapposte domande di risoluzione del contratto per reciproco inadempimento, dovesse dichiarare la risoluzione del contratto per mutuo consenso.
Attualmente la giurisprudenza ha mutato orientamento sostenendo al contrario che il giudice debba svolgere una valutazione comparativa e unitaria degli inadempimenti che le parti si sono addebitati per stabilire se sussiste l’inadempimento che legittima la risoluzione.
A tal fine occorre tenere conto non solo dell’elemento cronologico ma anche e soprattutto dei rapporti di casualità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e dell’incidenza delle medesime nella causa del contratto.
All’esito del giudizio l’inadempimento che risulterà prevalente determinerà la risoluzione del contratto ovvero, in caso di equivalenza degli inadempimenti, respingere le contrapposte domande di risoluzione (Cass. civ. 13 settembre 2018, n. 22372; Cass civ. 18 settembre 2015 n. 18320).
Il proprietario dell’agriturismo ahimè non ottenne dal ricorso in Cassazione l’esito sperato. I giudici infatti con l’ordinanza 12 novembre 2020 – 9 febbraio 2021, n. 3009 (testo in calce) confermavano il diritto della coppia a non ottemperare al pagamento.
I giudici sostenevano che nel caso in esame il Tribunale, in base ad un accertamento in fatto, aveva ritenuto non provato l’esatto adempimento da parte del ristoratore e ha quindi aveva ritenuto giustificato l’inadempimento degli sposini sostenendo che la sentenza impugnata era supportata da motivazione che non era apparente né intrinsecamente contraddittoria.
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Fideiussione tardiva per casa in costruzione: il preliminare è nullo
Con ordinanza 17 gennaio – 18 settembre 2020, n. 19510 (testo in calce) la Suprema Corte di Cassazione, sez. II civile, torna ad occuparsi della tutela dell’acquirente di immobili da costruire con riguardo alla garanzia fideiussoria prevista ex D.Lgs. n. 122/2005.
In specie – per quanto è dato comprendere dalla ricostruzione fattuale offerta in sentenza – le parti perfezionavano contratto preliminare di compravendita convenendo che il termine di stipula del definitivo fosse condizionato alla preveniva vendita di altro immobile in promissario acquirente; contestualmente alla stipula veniva versata caparra confirmatoria di euro 40.000,00 e prestata fideiussione di euro 45.760,00 ai sensi dell’art 2 del citato decreto.
Il termine per il rogito inizialmente fissato veniva differito per consentire la vendita dell’altro immobile. L’accordo all’uopo raggiunto dalle parti al fine integrativo del preliminare prevedeva il versamento della somma di euro 90.000,00; la fideiussione integrativa per euro 102.960,00 non veniva rilasciata contestualmente, ma dopo che il promissario acquirente, con lettera inviata due giorni prima del termine fissato per il rogito, aveva manifestato l’intenzione di non voler procedere al contratto definitivo stante il mancato avveramento della condizione e l’assenza di fideiussione.
Non vi è prova in atti che, nelle more, la costruzione dell’immobile fosse terminata e che, dunque, l’interesse del promissario acquirente alla garanzia non fosse più attuale, per sopravvenuto assorbimento del rischio alla cui protezione la norma è volta.
Soccombente nei primi due gradi di giudizio, l’immobiliare investe della questione la cassazione deducendo, da un lato,che la fideiussione sul secondo importo non avrebbe dovuto essere rilasciata trattandosi di somma corrisposta non già ad ulteriore acconto sul prezzo, ma come corrispettivo per il differimento convenuto e, dall’altro, che la domanda di nullità fosse contraria alla buona fede contrattuale e costituisse abuso del diritto in quanto tesa ad evitare l’adempimento del preliminare per carenza di provvista in capo al promissario acquirente, determinata dalla mancata vendita dell’altro immobile si sua proprietà.
La Corte, dopo aver focalizzato l’indagine da svolgere sulla “meritevolezza dell’interesse del promissario acquirente a far valere la nullità qualora la fideiussione sia stata comunque rilasciata e non si sia manifestata l’insolvenza del debitore (promissario venditore)”, ha ritenuto la domanda di nullità fondata e non costituente abuso e, quindi, respinto il ricorso sulla scorta di tre argomenti:
- Ritardo nel rilascio della seconda fideiussione;
- Importo della stessa inferiore a quello complessivamente versato dal promissario acquirente;
- Attualità dell’interesse del promissario acquirente stante la mancata prova dell’ultimazione lavori.
Eccettuata la questione dell’ultimazione lavori in merito a cui non sussistono elementi per riflettere, gli altri argomenti posti a fondamento della decisione appaiono perplessi.
Invero, considerato che – salvo errori – la seconda fideiussione non viene indicata come sostitutiva della prima, ma integrativa, l’importo complessivamente garantito dall’immobiliare sembra ammontare ad euro 148.720,00 (45.760,00 al preliminare + 102.960,00 successivamente) e quindi proporzionato rispetto alla somma di euro 130.000,00 (40.000,00+ 90.00,00) complessivamente versate dall’acquirente.
Quanto alla tempistica di rilascio della seconda fideiussione, non pare costituire motivo idoneo, da sé solo, a fondare la valutazione di meritevolezza dell’interesse dell’acquirente a far valere la nullità, considerato che la L. n. 122/2005 non sanziona il ritardo, ma l’omesso rilascio della garanzia.
In proposito la Cassazione, con giurisprudenza peraltro richiamata in sentenza, ha precisato che” una volta che sia stata rilasciata la garanzia prescritta per legge in data successiva alla stipula del preliminare, e senza che nelle more si sia manifestata l’insolvenza del promittente venditore ovvero che risulti altrimenti pregiudicato l’interesse del promissario acquirente, la proposizione della domanda di nullità di protezione prevista dal D.Lgs. n. 122 del 2005, art. 2 costituisce abuso del diritto” (Cassazione civile sez. II, 22/11/2019, n. 30555).
Ne consegue che il rilascio tardivo della garanzia può rilevare nel caso in cui, nelle more, si sia verificato un pregiudizio per l’acquirente per insolvenza del promittente venditore o altri motivi che, in specie, parrebbero non essersi manifestati, come si evince da focus di indagine individuato.
L’esame della causale di pagamento del secondo importo, ossia il suo versamento a titolo di corrispettivo per il differimento e non di caparra confirmatoria come dedotto nel primo motivo di ricorso, avrebbe, forse, potuto essere risolutiva, in quanto incidente sulla sussistenza dell’obbligo dell’immobiliare di garantire anche il secondo versamento.
Pur ritenendo il motivo ammissibile e dichiarando di esaminarlo unitamente al secondo, la sentenza non non indugia sul punto.
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Condannato al risarcimento del danno l’avvocato che dichiara di non voler assumere gay
e dichiarazioni rese da un noto avvocato che, nel corso di una trasmissione radiofonica, affermi di non voler assumere, nel proprio studio, persone omosessuali, hanno contenuto discriminatorio. Infatti, affermazioni siffatte contengono “espressioni idonee a dissuadere gli aspiranti candidati omosessuali dal presentare le proprie candidature […], così ostacolandone e/o rendendo maggiormente difficoltoso l’accesso al lavoro”. In circostanze simili, sono legittimate ad agire in giudizio, anche per ottenere il risarcimento del danno, le associazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso. Non solo quando esse agiscono a tutela di discriminazioni perpetrate a danno di soggetti individuabili, ma anche in presenza di discriminazioni collettive. La circostanza che l’ente sia composto solo da avvocati e abbia scopo di lucro non esclude, ex se, la rappresentatività. Essa deve essere verificata dal giudice del merito sulla base dell’esame dello statuto dell’associazione: si tratta di un accertamento fattuale che è insindacabile in sede di legittimità.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con l’ordinanza del 15 dicembre 2020 n. 28646 (testo in calce).
La vicenda
Un noto avvocato, nel corso di una trasmissione radiofonica, affermava che, nel suo studio, non avrebbe mai assunto persone omosessuali. Un’associazione di avvocati, volta alla tutela dei diritti dei gay, delle lesbiche, dei transgender e degli intrasessuali, conveniva in giudizio il legale, al fine di ottenere l’accertamento del carattere discriminatorio delle sue dichiarazioni. Il Tribunale accoglieva la doglianza e condannava l’avvocato al pagamento di 10 mila euro a titolo di risarcimento, oltre alla pubblicazione della sentenza su un quotidiano nazionale. Il convenuto soccombente interponeva appello e, tra le altre doglianze, eccepiva il difetto di legittimazione dell’associazione, sia sostanziale che processuale. Inoltre, si doleva del fatto che il Tribunale avesse rigettato l’eccezione di nullità del ricorso per la mancata menzione dell’avvertimento ex art. 163 c. n. 7 c.p.c. Infine, sollevava una questione di legittimità costituzionale del d.lgs. 216/2003 (articoli 2, lettere a) b) e 3 lettera a) per violazione dell’art. 21 Cost. sulla libera manifestazione del pensiero. La Corte d’appello respingeva in toto l’impugnazione. Si giunge così in Cassazione.
Riferimenti normativi
Prima di analizzare la decisione, ricordiamo brevemente le norme che vengono in rilievo.
D.lgs. 216/2003 attuativo della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. In particolare, l’art. 2 lettere a) e b) dispone che:
- si ha discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
- si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
L’art. 5, rubricato “legittimazione ad agire”, prevede che:
- le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio. Inoltre, sono legittimati ad agire nei casi di discriminazione collettiva anche qualora non siano individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione.
Direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. In particolare, l’art. 9, rubricato “difesa dei diritti”, dispone che:
- gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva.
Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia
La Corte di Cassazione opera un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sollevando due quesiti:
- se la corretta interpretazione della direttiva (art. 9) ammetta che un’associazione, composta da avvocati specializzati – come quella che ha agito nel caso di specie – nel cui statuto dichiari il fine di promuovere la cultura e il rispetto dei diritti della categoria, sia portatrice di un interesse collettivo e sia legittimata ad agire in giudizio, anche con una domanda risarcitoria;
- se possa applicarsi la tutela antidiscriminatoria anche contro una dichiarazione resa durante un’intervista radiofonica, ove l’intervistato abbia dichiarato che non assumerebbe mai persone omosessuali, benché non fosse programmata alcuna assunzione.
La decisione della Corte UE
Secondo il giudice europeo:
- la direttiva non osta ad una disciplina nazionale che attribuisca la legittimazione ad agire ad un’associazione di avvocati il cui statuto preveda, come finalità, la difesa di persone aventi un determinato orientamento sessuale, indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro;
- la direttiva si applica anche alle dichiarazioni radiofoniche come quelle in oggetto, sebbene non fosse in corso alcuna assunzione, purché “il collegamento tra dette dichiarazioni e le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in seno a tale impresa non sia ipotetico”.
La legittimazione ad agire
Il ricorrente sostiene che l’associazione, composta solo da avvocati, non sia legittimata ad agire; l’ente, infatti, non appare rappresentativo della categoria lesa essendo formato solo da legali. Tale doglianza viene rigettata. L’associazione de qua rileva come, negli anni, si sia occupata della sensibilizzazione sul tema dei diritti delle persone omosessuali, abbia pubblicato diversi testi in materia e abbia “ottenuto” una pronuncia della Consulta (138/2010) e della Cassazione (4184/2012) sul matrimonio tra persone dello stesso sesso. Inoltre, secondo il diritto unionale, spetta alla legislazione interna dello Stato membro disciplinare le condizioni in base alle quali un’associazione possa avviare un’azione tesa a far sanzionare la condotta discriminatoria. La questione, quindi, si sposta sul diritto nazionale. Ebbene, l’art. 5 c. 2 d. lgs. 216/2003 ammette che le associazioni rappresentative possano agire in giudizio anche allorché le persone lese dalla discriminazione non siano individuabili. Il criterio scelto dal legislatore per attribuire la legittimazione alle associazioni e alle organizzazioni è quello della rappresentatività dell’interesse leso, senza richiedere che i soci e aderenti ne siano personalmente titolari. Quindi, è irrilevante che l’associazione sia composta solo da avvocati e non da soggetti portatori dell’interesse, giacché ciò che rileva è la finalità statutaria, consistente nel difendere in giudizio le persone aventi un determinato orientamento sessuale.
L’ente esponenziale e lo scopo di lucro
Il ricorrente ritiene che l’associazione esponenziale del diritto leso non possa avere scopo di lucro. Anche tale doglianza viene rigettata, sia perché l’ente in discorso non persegue lo scopo di lucro sia perché è irrilevante, atteso che gli Stati membri possono attribuire la legittimazione attiva alle associazioni rappresentative indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro. La legge italiana (art. 5 d. lgs. 216/2003) non postula l’assenza dello scopo di lucro.
La rappresentanza ex lege
Il legislatore ha riconosciuto alle associazioni la rappresentanza ex lege per conto di una collettività indeterminata, in presenza di due presupposti:
- l’impossibilità di individuare il soggetto o i soggetti singolarmente discriminati;
- la rappresentatività dell’associazione rispetto all’interesse collettivo in questione.
Il primo requisito postula che la discriminazione, relativa alla violazione della parità di trattamento sul lavoro, abbia colpito una categoria indeterminata di soggetti (nel caso in esame, gli omosessuali).
Il secondo requisito va verificato sulla base dell’esame dello statuto associativo, «il quale dovrà univocamente contemplare la tutela dell’interesse collettivo assunto a scopo dell’ente, che di esso si ponga quale esponenziale: deve, dunque, trattarsi di un interesse proprio dell’associazione, posto in connessione immediata con il fine statutario, cosicché la produzione degli effetti del comportamento controverso si risolva in una lesione diretta dello scopo istituzionale dell’ente, il quale contempli e persegua un fine ed un interesse, assunti nello statuto a ragione stessa della sua esistenza e azione».
La sussistenza di tali requisiti è rimessa al giudice di merito, mancando la previsione normativa di un controllo pubblico preventivo, e non è sindacabile in sede di legittimità.
La libera manifestazione del pensiero e la discriminazione
L’avvocato si difende affermando che le proprie dichiarazioni siano state rese come cittadino e che non riguardavano una politica di assunzione. Egli si era limitato a manifestare liberamente il proprio pensiero come concesso dalla Costituzione (art. 21). Anche tale doglianza viene rigettata.
Il quadro normativo, interno ed europeo, prevede che l’ambito di applicazione della tutela antidiscriminatoria riguardi l’instaurazione, l’esecuzione o la conclusione di un rapporto di lavoro. Il fatto che nessuna trattativa, ai fini di un’assunzione, fosse in corso quando le dichiarazioni discriminatorie sono state rese, non esclude che tali dichiarazioni rientrino nell’ambito di applicazione della direttiva. Infatti, le affermazioni fatte nell’intervista radiofonica contenevano “espressioni idonee a dissuadere gli aspiranti candidati omosessuali dal presentare le proprie candidature allo studio professionale del ricorrente, così ostacolandone e/o rendendo maggiormente difficoltoso l’accesso al lavoro”. Inoltre, nel caso di specie, l’avvocato, titolare di uno studio, era potenzialmente un datore di lavoro, pertanto, le sue dichiarazioni discriminatorie rientrano nella disciplina in oggetto. Quanto alla libera manifestazione del pensiero, si tratta di un diritto non assoluto che, infatti, non può spingersi sino a violare altri principi costituzionalmente tutelati, come il diritto alla parità di trattamento in materia di occupazione e lavoro.
La mancata menzione dell’avvertimento ex art. 163 n. 7 c.p.c.
Tra i motivi di doglianza, il ricorre lamenta che nel ricorso introduttivo mancasse l’avvertimento di cui all’art. 163 n. 7 c.p.c. Anche tale censura viene rigettata, infatti, l’avvocato, pur eccependo la nullità dell’atto introduttivo, si era difeso nel merito. Nel caso di vizi della vocatio in ius l’art. 164 c. 3 c.p.c. esclude che la nullità della citazione sia sanata dalla costituzione del convenuto, se egli eccepisca tali nullità. Nondimeno, la norma presuppone che il convenuto, nel costituirsi, si sia limitato alla sola deduzione della nullità, senza anche svolgere difese e richiedere la fissazione di una nuova udienza. Infatti, un simile contegno integra la sanatoria della nullità della citazione (Cass. 21910/2014). Pertanto, se il convenuto, nel costituirsi, svolge le sue difese, viene meno il presupposto per l’applicazione della norma. Il legislatore non ha richiesto un’istanza del convenuto in aggiunta all’eccezione ed ha inteso ricollegare il dovere di fissazione di nuova udienza a una costituzione finalizzata alla sola formulazione dell’eccezione. Viceversa, se il convenuto svolge le sue difese, la fissazione dell’udienza avrebbe luogo pur in presenza di una difesa completamente articolata e sarebbe priva di scopo.
Riassumendo, in assenza dell’avvertimento ex art. 163 n. 7, il convenuto può:
- costituirsi e sanare la nullità,
- non costituirsi e lasciare che il giudice la rilevi,
- costituirsi e limitarsi ad eccepire tale nullità.
Non esiste la quarta possibilità, ossia costituirsi, eccepire la nullità e svolgere le proprie difese. A tal proposito la Corte enuncia il seguente principio:
- “in tema di nullità della citazione per vizi relativi alla vocatio in ius, quali l’inosservanza del termine di comparizione e l’omissione dell’avvertimento prescritto dall’art. 163 c.p.c., n. 7, l’art. 164 c.p.c., comma 3, laddove esclude che la nullità della citazione sia sanata dalla costituzione del convenuto, che eccepisca tali nullità – con l’effetto della necessità della fissazione di nuova udienza nel rispetto dei termini -, presuppone che il convenuto, nel costituirsi, si sia limitato alla sola deduzione della nullità, senza svolgere le proprie difese nel merito.”.
I principi di diritto
In conclusione, il ricorso del noto avvocato viene rigettato e la Corte enuncia i seguenti principi di diritto:
- “in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, art. 5, comma 2, come modificato dal D.L. 8 aprile 2008, n. 59, art. 8-septies convertito con modificazioni nella L. 6 giugno 2008, n. 101, costituisce esplicazione della facoltà riconosciuta agli Stati membri dall’art. 8 della direttiva 2000/78 di concedere una tutela più incisiva di diritto nazionale rispetto agli atti discriminatori in ambito lavorativo, attribuendo – nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa – la legittimazione attiva ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno a un’associazione che sia rappresentativa del diritto o dell’interesse leso”;
- “il requisito della rappresentatività dell’ente, per il quale non è stabilito alcun controllo preventivo, deve essere verificato dal giudice del merito sulla base dell’esame del suo statuto, che deve contemplare la previsione univoca del perseguimento della finalità di tutela dell’interesse collettivo assunto a scopo dell’ente, e del suo concreto operato, con un accertamento fattuale che è insindacabile in sede di legittimità, se non per vizio della motivazione nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.
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Infortunio su strada sconnessa: l’ente risponde anche in caso di comportamento incauto
La condotta della vittima del danno causato da una cosa in custodia costituisce caso fortuito idoneo ad escludere la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. ove sia colposa e imprevedibile.
È questo il principio di diritto sancito dalla Suprema Corte nell’ordinanza n. 456 (testo in calce) del 13 gennaio 2021.
La vicenda
Una donna conveniva in giudizio il Comune di Napoli chiedendone la condanna al risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c. o, in subordine, ex art. 2051 c.c. per l’infortunio riportato in conseguenza di una caduta: “mentre attraversava la strada, finiva con il piede in una pozzanghera d’acqua che celava una buca e la presenza di cubetti di porfido malfermi, perdendo l’equilibrio e cadendo sulla schiena” con conseguente frattura di una vertebra lombare.
Il giudice di primo grado, ritenuta raggiunta la prova in ordine alla situazione di insidia o trabocchetto, aveva accolto la domanda ex art. 2043 c.c., condannando il Comune al pagamento della somma di € 37.875,09 oltre rivalutazione interessi e spese legali.
Il giudice dell’appello ha, invece, ritenuto che la fattispecie rientrasse nell’alveo dell’art. 2051 c.c. e ha, pertanto, valorizzato l’efficienza del comportamento imprudente della vittima nella produzione del danno “che si atteggia a concorso causale colposo valutabile ai sensi dell’art. 1227 c.c. fino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta omissiva dell’ente proprietario della strada e l’evento dannoso integrando gli estremi del fortuito”.
Avverso la sentenza la donna ricorreva in Cassazione.
L’accoglimento
La Suprema Corte ritiene fondati i motivi del ricorso.
L’art. 2051 c.c. configura un caso di responsabilità oggettiva del custode e prevede che il danneggiato debba limitarsi a provare il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno. Al custode spetta la prova cd. liberatoria mediante dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità.
L’ente proprietario della strada supera la presunzione di colpa quando la situazione che provoca il danno si verifica non come conseguenza di un difetto di diligenza nella sorveglianza della strada, ma in maniera improvvisa e per colpa esclusiva dello stesso danneggiato.
Pertanto, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia, il Comune avrebbe dovuto dimostrare che il fatto della stessa danneggiata avesse i caratteri dell’autonomia, eccezionalità, imprevedibilità ed inevitabilità e che fosse da solo idoneo a produrre l’evento, escludendo i fattori causali concorrenti.
La condotta della vittima, invero, assume efficacia causale esclusiva soltanto ove sia qualificabile come abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto, potendo, in caso contrario, rilevare ai fini del concorso causale ai sensi dell’art. 1227 c.c.
Per giurisprudenza costante, “se il fatto colposo del danneggiato può concorrere nella produzione dell’evento, il fatto che una strada risulti “molto sconnessa” con buche e rattoppi, indice di cattiva manutenzione, non costituisce un’esimente per l’ente pubblico in quanto il comportamento disattento e incauto del pedone non è ascrivibile al novero dell’imprevedibile”.
Pertanto, in conclusione, il giudice dell’appello non ha correttamente applicato gli artt. 2051 e 1227 del c.c., con conseguente Cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa alla Corte d’Appello in diversa composizione.
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Vittima di stupro: lo Stato deve garantire un indennizzo equo e adeguato
Una direttiva del 2004 imponeva agli Stati membri di adottare un sistema di indennizzi a favore delle vittime di reati violenti. L’Italia vi dà attuazione, con grande ritardo, solo nel 2017. Una donna, vittima di stupro, agisce in giudizio contro il Governo, al fine di ottenere il risarcimento per la mancata trasposizione della direttiva.
L’iter processuale, iniziato nel 2009, è assai complesso, stante la contestuale procedura d’infrazione promossa contro l’Italia e le questioni pregiudiziali sollevate, prima, dal giudice di merito e, poi, dalla Corte di Cassazione. I giudici di legittimità, recependo le decisioni comunitarie, affermano che le vittime di reati violenti, anche residenti nello stesso paese in cui è avvenuto il fatto (cosiddette “vittime non transfrontaliere”), abbiano diritto ad un indennizzo che non sia puramente simbolico e che sia parametrato alla peculiarità del crimine e alla sua gravità. Per ottenerlo, la vittima deve trovarsi nella condizione di oggettiva difficoltà nell’agire esecutivamente contro l’autore del reato, mentre non è richiesta l’assoluta impossibilità di farlo. Inoltre, non bisogna confondere il danno patito dalla vittima per la ritardata trasposizione della direttiva con quello scaturente dal fatto illecito, in quanto dal primo deriva il diritto al risarcimento e dal secondo il diritto all’indennizzo.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 24 novembre 2020, n. 26757 (testo in calce), emessa proprio alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, riconosce alla vittima di stupro il risarcimento, tenendo conto anche del maggior danno subito da chi non abbia potuto usufruire del vantaggio offerto dalla direttiva a causa del ritardo nel recepimento. Dall’importo risarcitorio, riconosciuto dai giudici, viene defalcata – e non cumulata – la somma, percepita dalla vittima, a titolo di indennizzo, in virtù della compensatio lucri cum danno.
La vicenda
Una donna, appena diciottenne, veniva aggredita e violentata da due cittadini rumeni. Gli stupratori venivano condannati a più di dieci anni di reclusione, oltre al risarcimento del danno; alla vittima veniva assegnata una provvisionale, immediatamente esecutiva, di 50 mila euro. Tuttavia, gli autori del reato si davano alla latitanza e la donna non riceveva nulla. La vittima, cittadina italiana di origini romene, evocava in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri, affinché ne venisse dichiarata la responsabilità per la mancata e non integrale attuazione della direttiva (2004/80/CE) relativa all’indennizzo delle vittime di reato. In particolare, la normativa comunitaria imponeva agli Stati membri di introdurre una tutela indennitaria entro il luglio del 2005. Il Governo si difendeva deducendo, tra le altre argomentazioni, che la disciplina citata riguardasse solo situazioni transfrontaliere e non interne. Il tribunale adito accertava l’inadempimento della Presidenza del Consiglio e la condannava al pagamento di 90 mila euro a favore della donna, oltre alla refusione delle spese di lite. In sede di gravame, la sentenza veniva riformata solo nel quantum, diminuito a 50 mila euro, atteso che si trattava di un indennizzo e non di un risarcimento. Si giungeva così in Cassazione.
Ricostruzione del complesso iter processuale
La vicenda processuale, principiata nel 2009, segue un complesso iter anche a causa dei diversi rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea e del procedimento d’infrazione avviato contro l’Italia. Di seguito, si tratteggiano le tappe più significative del procedimento, al fine di agevolare la comprensione della decisione in commento.
- Nel settembre 2014, la Commissione europea ha avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia (causa C-601/14) per omessa adozione delle misure idonee a garantire un indennizzo alle vittime dei reati violenti (art. 12, par. 2 direttiva 2004/80/CE);
- nel maggio 2015, il tribunale di Roma ha formulato un rinvio pregiudiziale alla Corte UE sull’interpretazione dell’art. 12 par. 2 direttiva 2004/80/CE;
- nel maggio 2015, la causa è stata discussa in Cassazione, ma è stata emessa un’ordinanza interlocutoria (18003/2015) con la quale si rinviava a nuovo ruolo, in attesa delle due pronunce della Corte UE;
- nell’ottobre 2016 e nel febbraio 2017 la Corte UE ha deciso rispettivamente sul ricorso per inadempimento e sulla questione pregiudiziale;
- nell’ottobre 2017, la Corte di Cassazione ha emesso un’altra ordinanza interlocutoria (1196/2018) stante la presenza di una legge sopravvenuta (legge 167/2017, modificativa della legge 122/2016);
- nel gennaio 2019, la Suprema Corte ha emesso un’altra ordinanza interlocutoria (2964/2019) avente ad oggetto un ulteriore rinvio pregiudiziale alla Corte UE, contenente due quesiti, il primo sulla responsabilità dello Stato, verso soggetti non transfrontalieri, per mancato recepimento della direttiva; il secondo, sulla possibilità di considerare equo un indennizzo stabilito in misura fissa e pari a 4.800 euro.
Riferimenti normativi
La pronuncia fa riferimento segnatamente alla direttiva a cui lo Stato italiano non ha dato tempestivamente attuazione e alla legge sopravvenuta ai fatti di causa, con le successive modificazioni.
- Direttiva 2004/80/CE relativa all’indennizzo delle vittime di reato; in particolare, viene in rilievo l’art. 12 par. 2 a mente del quale:
«Tutti gli Stati membri provvedono a che le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime». - Legge 122/2016 relativa alla disciplina sull’indennizzo in favore delle vittime di reati interazionali violenti.
- Legge 167/2017, modificativa della legge 122/2016, all’art. 6 stabilisce il diritto all’indennizzo anche alle vittime di reati commessi prima dell’entrata in vigore della legge 122/2016 (efficacia retroattiva); la domanda andava proposta entro 120 giorni dall’entrata in vigore (12.12.2017), termine prorogato, prima dalla legge 145/2018 e poi dalla legge 8/2020, sino al 31.12.2020.
- D.M. 31 agosto 2017 recante la “Determinazione degli importi dell’indennizzo alle vittime dei reati intenzionali violenti”, che stabilisce per il reato di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) l’indennizzo nell’importo fisso di euro 4.800 (art. 1 c. 1 lett. b).
- D.M. 22 novembre 2019, che abroga il D.M. di cui sopra, stabilendo per il delitto di violenza sessuale l’indennizzo nell’importo fisso di euro 25.000 (art. 1 c. 1 lett. c), incrementabile sino ad un massimo di euro 10.000 per spese mediche e assistenziali.
Differenza tra indennizzo e risarcimento
La pretesa azionata dalla donna non riguardava l’indennizzo, stabilito dalla legge 122/2016, a favore delle vittime dei reati violenti. Ella domandava il risarcimento per il danno derivante dall’inadempimento statuale all’obbligo di trasporre tempestivamente la direttiva comunitaria (2004/80/CE). Si tratta di due domande distinte per petitum e causa petendi. Infatti:
- l’indennizzo è una prestazione indennitaria stabilita dalla legge; si tratta di un’obbligazione ex lege da assolversi nei confronti degli aventi diritto (Cass. 24474/2020);
- il risarcimento per omessa o tardiva trasposizione di una direttiva non self executing rientra nello schema della responsabilità contrattuale, in quanto nascente ex contractu e non ex delicto. Infatti, secondo la giurisprudenza (Cass. 10813/2011; Cass. 30502/2019), si tratta di una «responsabilità che, in ragione della natura antigiuridica del comportamento omissivo dello Stato anche sul piano dell’ordinamento interno, e dovendosi ricondurre ogni obbligazione nell’ambito della ripartizione di cui all’art. 1173 c.c., va inquadrata nella figura della responsabilità “contrattuale”, in quanto nascente non dal fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c., bensì da un illecito ex contractu e cioè dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente».
La circostanza che la vittima del reato violento possa ricevere l’indennizzo, a causa dell’applicazione retroattiva della legge, non esclude che abbia subito dei danni ulteriori dal ritardato adempimento dello Stato. La stessa Corte UE, all’esito del procedimento d’infrazione, ha riconosciuto che l’Italia non ha adottato le misure adeguate richieste per l’equo indennizzo delle vittime di reati internazionali violenti, ai sensi dell’art. 12 par. 2 della direttiva (sent. 11.10.2016, Commissione contro Italia, C-601/14).
Interpretazione della direttiva
Il citato art. 12 par. 2, attorno a cui ruota tutta la decisione, secondo la Corte UE, deve essere interpretato nel senso che:
- garantisce al cittadino dell’UE il diritto di ottenere un indennizzo equo ed adeguato per le lesioni subite nel territorio di uno Stato membro nel quale si trova, nell’ambito dell’esercizio del proprio diritto alla libera circolazione,
- impone a ciascuno Stato membro di dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime per ogni reato intenzionale violento commesso sul proprio territorio.
Tale obbligo riguarda qualsiasi reato intenzionale violento commesso sul territorio dello Stato membro, come la violenza sessuale (art. 609 bis c.p.).
Tutela sia alle vittime interne che transfrontaliere
La Presidenza del Consiglio adduce che la direttiva riguardi unicamente le vittime trasfrontaliere, a tal proposito, la Suprema Corte ha operato un rinvio pregiudiziale sottoponendo ai giudici europei due questioni interpretative:
- se ricorra la responsabilità dello Stato, verso soggetti interni (e non transfrontalieri), per mancato recepimento della direttiva;
- se possa considerarsi equo un indennizzo stabilito in misura fissa e pari a 4.800 euro.
Preme rimarcare, in ordine al primo quesito (lett. a), che la giurisprudenza eurounitaria sembrava chiara nell’affermare la portata transfrontaliera dell’obbligo previsto dal mentovato art. 12 par. 2 della direttiva1. In buona sostanza, secondo tale lettura, la direttiva pareva applicabile a chi fosse rimasto vittima di un reato intenzionale violento commesso nel territorio di Stato membro non di propria residenza. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sent. 16.07.2020, C-129/2019) ha affermato che:
- il diritto dell’UE vada interpretato nel senso che lo Stato membro possa dirsi responsabile per il danno causato dalla mancata trasposizione tempestiva dell’art. 12, par. 2 della direttiva, nei confronti di vittime residenti in detto Stato membro, nel cui territorio il reato intenzionale violento è stato commesso.
In altre parole, la disposizione della direttiva si rivolge a tutte le vittime di reati intenzionali violenti e non solo a quelle che si trovino in una condizione transfrontaliera. Quindi, anche i soggetti residenti possono ottenere un indennizzo, qualora siano vittime di tali reati.
Difficoltà (e non assoluta impossibilità) dell’azione della vittima contro il reo
La circostanza, addotta dal Governo, secondo cui la vittima non avrebbe provveduto a dare esecuzione alla provvisionale, è destituita di fondamento. La direttiva richiede che la vittima cerchi di conseguire il risarcimento dagli autori del reato. Nondimeno, nel caso di specie, i rei si erano dati alla latitanza, pertanto, non era stata possibile alcuna forma di recupero coattivo del credito. Del resto, la vittima è “esonerata” dall’esercizio dell’azione esecutiva sia in caso di mancata individuazione del reo che di insufficienza delle risorse economiche in capo al soggetto agente. In tal senso, depone anche la legge 122/2016 (art. 12 c. 1 lett. b) secondo cui la vittima ha diritto all’indennizzo qualora abbia esperito infruttuosamente l’azione esecutiva verso il reo, ad eccezione dei casi in cui:
- l’autore del fatto resti ignoto,
- sia stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato.
Il risarcimento da inadempimento statuale: il quantum debeatur
La Presidenza del Consiglio lamenta che il giudice d’appello abbia liquidato la somma dovuta in 50 mila euro, cifra equivalente alla provvisionale stabilita in sede penale. In tal modo, si è confusa l’obbligazione indennitaria dello Stato con quella risarcitoria, preordinata all’integrale ristoro del danno. Tale doglianza viene accolta dalla Suprema Corte solo parzialmente. Infatti, gli ermellini confermano il quantum stabilito in sede di gravame (ossia 50 mila euro), ritenendolo corretto, atteso che la vittima aveva chiesto il risarcimento di tutti i danni, patiti e patendi; come vedremo, dall’importo così quantificato va detratto quanto già ricevuto dalla donna a titolo di indennizzo. Di seguito, il percorso argomentativo seguito dai giudici di legittimità volto a confermare la congruità del risarcimento come quantificato in sede d’appello.
Dunque, la responsabilità dello Stato per omessa o ritardata trasposizione della direttiva ha natura contrattuale, da cui consegue l’obbligo del risarcimento del danno. Gli effetti pregiudizievoli subiti dalla vittima (danno emergente e lucro cessante) vanno ristorati integralmente o con valutazione equitativa laddove non siano dimostrabili nel loro preciso ammontare (art. 1226 c.c.). Il parametro per valutare il pregiudizio patito dalla vittima per la tardiva attuazione della direttiva è costituito dall’ammontare dell’indennizzo di cui avrebbe avuto diritto ab origine «come bene della vita garantito dall’obbligo di conformazione del diritto nazionale a quello dell’Unione».
Ciò premesso, occorre distinguere tra:
- l’indennizzo – equo ed adeguato – di cui ha diritto la vittima ex art. 12 par. 2 della direttiva,
- e il risarcimento del danno, in sede civile, come conseguenza del reato di violenza sessuale.
L’indennizzo in misura fissa è iniquo e inadeguato
Nel caso di specie, la vittima, non transfrontaliera, si era vista riconoscere il proprio diritto all’indennizzo solo a seguito della legge 167/2017 (modificativa della legge 122/2016):
- dapprima, nella misura fissa d 4.800 euro (in base al D.M. 31.08.2017),
- successivamente, nella misura fissa di 25.000 euro (in base al D.N. 22.11.2019).
Orbene, la seconda questione pregiudiziale sollevata dalla Suprema Corte (Ord. 2964/2019) riguarda proprio l’equità e l’adeguatezza di un indennizzo stabilito in misura fissa. La Corte UE (sent. 16 luglio 2020 C- 129/2019) ha statuito che l’art. 12, par. 2, direttiva 2004/80, debba essere interpretato nel senso che:
- «un indennizzo forfettario concesso alle vittime di violenza sessuale sulla base di un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti non può essere qualificato come “equo ed adeguato”, qualora sia fissato senza tenere conto della gravità delle conseguenze del reato per le vittime, e non rappresenti quindi un appropriato contributo al ristoro del danno materiale e morale subito».
Quindi, l’indennizzo non deve essere puramente simbolico e, se quantificato in via forfettaria, deve comunque considerare la peculiarità del crimine e la sua gravità.
Correlazione tra indennizzo e risarcimento
Ai fini della decisione in commento occorre ricordare la correlazione tra:
- indennizzo ai sensi dell’art. 12 direttiva e risarcimento per illecito comunitario,
- indennizzo ai sensi dell’art. 12 direttiva e risarcimento del danno da reato,
L’indennizzo ex direttiva 2004/80/CE e il risarcimento del danno civile a favore della vittima, seppur non coincidenti quanto ai presupposti, titoli dell’erogazione e consistenza economica, mirano a ristorare il danno morale e materiale subito dalla vittima: il primo (ossia l’indennizzo) in misura non integrale come, invece, il secondo (vale a dire il risarcimento del danno da reato).
Nel caso di specie, la vittima ha chiesto il risarcimento per tutti i danni, patiti e patendi, quindi, anche di quelli derivati dal “mancato godimento” del beneficio, pertanto, il quantum debeatur risulta ancorato ad una perdita (morale e materiale) patita dall’attrice, perdita accresciuta vieppiù dal tempo trascorso in attesa della trasposizione della direttiva.
La compensatio lucri cum damno
La Corte d’Appello ha condannato la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento di 50 mila euro, da tale importo vanno detratti i 25 mila euro percepiti – medio tempore – dalla vittima, in applicazione del principio della compensatio lucri cum danno.
Ricordiamo che la compensazione del lucro con il danno è un principio secondo il quale la determinazione del danno risarcibile deve tenere conto degli effetti vantaggiosi per il danneggiato, che hanno causa immediata e diretta nel fatto dannoso (C. M. BIANCA, La responsabilità, 5, Milano, Giuffrè, 1994, 150 ss.). Secondo la giurisprudenza (Cass. S.U. 12564/2018; Cass. S.U. 12567/2018), la compensatio trova il proprio referente normativo nell’art. 1223 c.c. che contiene:
- il principio di indifferenza, ossia il patrimonio del danneggiato non deve patire le conseguenze negative derivate dal fatto illecito, ma neppure giovarsi di questo;
- la regola della causalità giuridica, a mente della quale il danno e il vantaggio devono essere collegati eziologicamente all’illecito e ciò a prescindere dal titolo attributivo (legge o contratto).
Oltre al nesso causale tra illecito e beneficio, occorre indagare la ragione giustificatrice del beneficio. Infatti, solo se la causa della sua attribuzione ha una funzione analoga a quella risarcitoria, propria dell’illecito, è possibile lo scomputo (cosiddetto “defalco”) dal risarcimento stesso. Alla fattispecie in esame, si applica il principio secondo il quale nelle «ipotesi in cui, pur in presenza di titoli differenti, vi sia unicità del soggetto responsabile del fatto illecito fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al danneggiato una provvidenza indennitaria (…) vale la regola del diffalco, dall’ammontare del risarcimento del danno, della posta indennitaria avente una cospirante finalità compensativa» (Cass. S.U. 12564/2018; Cass. S.U. 12567/2018; Cass. 31007/2018; Cass. S.U. 584/2008, Cass. 6573/2013).
Il dettato normativo che impone il defalco
Oltre a quanto sopra esposto, anche il dettato normativo prevede il defalco. Infatti, la legge 122/2016 (come modificata dalla legge 167/2017 e dalla legge 145/2018) dispone, all’art. 12 c. 1, che l’indennizzo sia dovuto alle seguenti condizioni:
- lett. e) “la vittima non abbia percepito, in tale qualità e in conseguenza immediata e diretta del fatto di reato, da soggetti pubblici o privati, somme di denaro di importo pari o superiore a quello dovuto in base alle disposizioni di cui all’art. 11”;
- lett. e-bis) “se la vittima ha già percepito, in tale qualità e in conseguenza immediata e diretta del fatto di reato, da soggetti pubblici o privati, somme di denaro di importo inferiore a quello dovuto in base alle disposizioni di cui all’art. 11, l’indennizzo di cui alla presente legge è corrisposto esclusivamente per la differenza”.
Conclusioni: i principi espressi
I principi espressi nella lunga e complessa sentenza della Cassazione possono così riassumersi:
- le vittime di reati intenzionali violenti, commessi in Italia (cosiddette “vittime non transfrontaliere”) hanno diritto al risarcimento del danno per tardiva trasposizione dell’art. 12 par. 2 direttiva 2004/80/CE, che impone agli Stati membri di riconoscere un indennizzo a tali vittime per i fatti verificatisi nei loro territori;
- l’indennizzo spetta alle vittime di ogni reato intenzionale violento commesso nel territorio di uno Stato e, quindi, anche in relazione al delitto di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.); per ricevere il ristoro le vittime non devono instaurare un giudizio civile verso degli autori del fatto, se si sono resi latitanti;
- l’indennizzo deve essere equo e adeguato, non può essere meramente simbolico ma, se determinato in via forfettaria, deve tenere conto delle peculiarità del crimine e della sua gravità;
- dall’ammontare riconosciuto alle vittime, a titolo di risarcimento del danno per la tardiva trasposizione del mentovato art. 12 par. 2 deve essere detratta (cosiddetto “defalco”) la somma loro corrisposta quale indennizzo (ex lege 122/2016 e successive modifiche) in virtù della “compensatio lucri cum damno”.
La Suprema Corte, all’esito di un articolato iter delibativo, accoglie solo l’ultimo motivo di ricorso presentato dalla Presidenza del Consiglio, pertanto, cassa la sentenza in relazione a tale motivo. Dal momento che il fatto sopravvenuto del pagamento dell’indennizzo – verificatosi in corso di causa – non necessita di ulteriori accertamenti di fatto, la causa viene decisa nel merito (ex art. 384 c. 2 c.p.c.) e il ricorrente viene condannato al risarcimento della differenza tra i 50 mila euro – stabiliti in appello – e i 25 mila euro ricevuti dalla vittima a titolo di indennizzo, oltre interessi; inoltre, segue la condanna al pagamento delle spese legali.
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Licenziato dopo incidente: risarcimento comprende tutte le retribuzioni future perse
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 9 dicembre 2020 n. 28071 (testo in calce), torna sul tema del risarcimento del danno da lucro cessante.
Se il danneggiato, a causa del fatto illecito (come un sinistro stradale) perde il lavoro, ha diritto al risarcimento per la perdita reddituale. Tale ristoro deve essere corrisposto integralmente e non in base alla percentuale di perdita della capacità di lavoro specifica. Viceversa, nel caso in cui la vittima abbia trovato un nuovo lavoro, il risarcimento sarà pari alla differenza tra le retribuzioni perdute e quelle conseguite.
La vicenda
Un ciclista veniva investito da un’automobile e riportava gravi danni alla persona. Inoltre, a causa delle lesioni, superava il periodo di comporto e veniva licenziato dal posto di lavoro a tempo indeterminato. Agiva, quindi, in giudizio contro il conducente e il proprietario del veicolo, nonché contro la compagnia assicurativa. In primo grado, il danneggiato otteneva un risarcimento di oltre 270 mila euro, in aggiunta agli acconti già versati dall’assicurazione.
La Corte d’appello condannava i convenuti all’ulteriore pagamento di 50 mila euro a titolo di danno non patrimoniale e 29 mila a titolo di danno patrimoniale da lucro cessante. Il danneggiato ricorre in Cassazione giacché contesta che le retribuzioni perse a causa del licenziamento, calcolate nel risarcimento, gli siano state riconosciute solo nella misura di 1/3, ossia nella misura pari alla menomazione patita.
Il danno patrimoniale da perdita reddituale
Il danneggiato ha perso il proprio posto di lavoro a tempo indeterminato, poiché, a causa dei postumi, ha superato il periodo di comporto ed è stato licenziato. Egli, quindi, ha diritto al risarcimento del danno per la perdita reddituale. Il calcolo va effettuato sulla base degli importi delle retribuzioni che avrebbe conseguito sino alla pensione, sugli assegni familiari, sulla perduta possibilità di progressione in carriera, sul danno pensionistico.
Secondo la giurisprudenza, «la liquidazione del danno patrimoniale da incapacità lavorativa, patito in conseguenza di un sinistro stradale da un soggetto percettore di reddito da lavoro, deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima» (Cass. Ord. 8896/2016; Cass. Ord. 25370/2018). Il giudice di merito ha errato nel far riferimento alla misura percentuale della perdita della capacità lavorativa specifica indicata dal CTU, atteso che essa non aveva rilievo ai fini della liquidazione del danno patrimoniale. Il giudicante avrebbe dovuto riconoscere il 100% di tali importi e non solo il 33%.
Il lucro cessante e le retribuzioni future
Il danneggiato deve essere risarcito dell’intero pregiudizio patito. Nel caso in esame, il danno consiste nella perdita dei redditi, in parte futuri, derivanti dal rapporto di lavoro dipendente, che la vittima ha perduto a causa del fatto illecito del convenuto. Il danneggiato non è gravato dall’onere di dimostrare che non fosse possibile per lui reperire un’altra attività lavorativa. Al contrario, avrebbe dovuto essere il danneggiante a dimostrare, eventualmente, che il danneggiato aveva trovato un nuovo impiego (Cass. 9616/2015).
Pertanto, quando il danneggiato abbia perso il posto di lavoro a causa delle lesioni derivanti dal fatto illecito (il sinistro stradale, nel nostro caso), ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante. Con tale espressione si fa riferimento alla perdita dei redditi futuri, tale pregiudizio va liquidato tenendo conto di:
- tutte le retribuzioni
- tutti i relativi accessori,
- tutti i probabili incrementi, anche pensionistici,
che egli avrebbe potuto ragionevolmente conseguire in base a quello specifico rapporto di lavoro. La liquidazione del danno deve avvenire in misura integrale e non in base alla sola percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica accertata come conseguente alle lesioni permanenti riportate. Viceversa, allorché il danneggiante dimostri che la vittima:
- abbia trovato una nuova occupazione retribuita,
- ovvero che avrebbe potuto farlo e non lo abbia fatto per sua colpa,
il danno potrà essere liquidato esclusivamente nella differenza tra le retribuzioni perdute e quelle di fatto conseguite o conseguibili in virtù della nuova occupazione.
Il principio di diritto
La Suprema Corte enuncia il seguente principio di diritto:
- «laddove il danneggiato dimostri di avere perduto un preesistente rapporto di lavoro a tempo indeterminato di cui era titolare, a causa delle lesioni conseguenti ad un illecito, il danno patrimoniale da lucro cessante, inteso come perdita dei redditi futuri, va liquidato tenendo conto di tutte le retribuzioni (nonché di tutti i relativi accessori e probabili incrementi, anche pensionistici) che egli avrebbe potuto ragionevolmente conseguire in base a quello specifico rapporto di lavoro, in misura integrale e non in base alla sola percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica accertata come conseguente alle lesioni permanenti riportate, salvo che il responsabile alleghi e dimostri che egli abbia di fatto reperito una nuova occupazione retribuita, ovvero che avrebbe potuto farlo e non lo abbia fatto per sua colpa, nel qual caso il danno potrà essere liquidato esclusivamente nella differenza tra le retribuzioni perdute e quelle di fatto conseguite o conseguibili in virtù della nuova occupazione».
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 28071/2021 >> SCARICA IL PDF
fonte altalex.com
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