
Reazione offensiva a un’accusa ingiusta: la provocazione esclude la diffamazione
Per la configurabilità dell’esimente occorrono lo stato d’ira, il fatto ingiusto altrui e un rapporto di causalità psicologica (Cassazione penale, sentenza n. 17958/2020)
Non è punibile l’avvocato la cui condotta diffamatoria costituisca reazione, sia pur irosa, alla ingiusta contestazione, da parte di colleghi, di un fatto deprecabile, non già commesso dall’avvocato ma da questi subito ad opera della controparte assistita dai colleghi.
Questo è quanto chiarito dalla Cassazione penale con sentenza n. 17958/2020 (testo in calce).
Il fatto
La pronuncia della Corte di Cassazione è occasionata dal ricorso proposto dalla parte civile avverso la sentenza di assoluzione di un avvocato, il quale, in replica all’accusa, mossa da due colleghi, di aver tenuto un comportamento censurabile ai danni della loro assistita (consistito nel lanciare al volto di quest’ultima la banconota concernente le prestazioni rese dalla lavanderia di cui era titolare) inviava uno scritto in cui insultava la persona dagli stessi rappresentata.
Orbene, il giudice di pace in primo grado e il Tribunale monocratico in appello, pur riconoscendo la valenza diffamatoria dello scritto, ritenevano che la reazione scomposta dell’avvocato fosse stata determinata dal contenuto della lettera di contestazione laddove attribuiva un fatto non rispondente al vero, perchè non commesso bensì subito (il lancio della banconota sarebbe stato patito dall’avvocato ed effettuato per mano della controparte, titolare della lavanderia, che rivendicava il compenso per le prestazioni effettuate).
Il ricorso articolava un unico motivo con il quale escludeva la ricorrenza dell’esimente della provocazione sull’ assunto secondo cui il fatto ingiusto non potesse essere ravvisato nella missiva dei legali, moderata nei toni e nei contenuti.
L’esimente della provocazione
Come noto, ai sensi dell’art. 599 c.p. comma 2 “non è punibile chi ha commesso alcuni dei fatti preveduti dall’art. 595 nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso”: trattasi dell’istituto della provocazione, ovvero la stessa figura di cui all’art. 62 n. 2 che tuttavia, nel caso di specie, non attenua la pena ma la esclude del tutto.
L’esimente in questione ha natura giuridica controversa, discutendosi se sia una causa di giustificazione, di esclusione della colpevolezza o di non punibilità.
La disposizione richiede due presupposti fondamentali per l’operatività dell’esimente: il fatto ingiusto altrui e lo stato d’ira conseguente.
Il fatto ingiusto altrui che provoca lo stato d’ira può consistere in qualsiasi comportamento contrario a norme giuridiche, civili, morali o di costume, e deve essere idoneo a determinare lo stato d’ira dell’autore, quindi deve valere come provocazione in senso stretto.
Lo stato d’ira conseguente al fatto ingiusto consiste in una alterazione psichica cui consegue la perdita del controllo di sé stessi per l’indebolimento o la mancata attivazione dei freni inibitori.
È necessario, ad ogni modo, che tale stato sia diretta ed immediata conseguenza del fatto ingiusto altrui, laddove la norma specifica che la condotta conseguente debba avvenire ‘subito dopo di esso’.
Il requisito dell’immediatezza viene inteso in senso relativo, essendo sufficiente che la reazione abbia luogo finchè dura lo stato d’ira suscitato dal fatto provocatorio.
La sentenza della Cassazione
La Corte ha dichiarato infondate le censure evidenziando come l’ingiustizia del fatto, idonea a provocare lo stato d’ira, dovesse ravvisarsi non certo nella forma, ma nel contenuto della lettera di contestazione, laddove aveva attribuito all’avvocato imputato un fatto deprecabile, non da lui commesso, bensì da lui subito.
Seguendo la reazione, pur irosa dell’avvocato, alla provocazione costituita dalla contestazione di un fatto non veritiero, la stessa era da ritenersi correttamente scriminata ex art. 599 c.p.
Sul punto la Corte ha richiamato, a suffragio delle argomentazioni rese, la giurisprudenza che ritiene applicabile l’esimente in questione allorquando ricorrano: lo stato d’ira, costituito da un’alterazione emotiva, che può anche protrarsi nel tempo; il fatto ingiusto altrui, che deve essere connotato dall’ingiustizia obiettiva intesa come contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali e infine il rapporto di causalità psicologica fra l’offesa e la reazione.
Ha pertanto rigettato il ricorso e condannato la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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Preliminare: clausola penale è inefficace se non confermata nel definitivo
Le pattuizioni concordate nel preliminare si intendono superate dalla nuova manifestazione di volontà delle parti espressa nel definitivo (Cass. n. 23307/2020).
Con la sentenza 23 ottobre 2020, n. 23307 la Corte di Cassazione, sezione II civile, torna a pronunciarsi in merito all’assorbimento, o meno, delle pattuizioni prese con il contratto preliminare nel successivo contratto definitivo.
Il caso
La controversia scaturisce da un atto di citazione notificato da parte dell’acquirente nei confronti della società venditrice di un compendio immobiliare, volta all’accertamento ed alla condanna di quest’ultima per inadempimento contrattuale sia in sede di preliminare che in sede di definitivo.
Il Tribunale di prima istanza, accogliendo la domanda risarcitoria dell’attrice, condannava la convenuta (venditrice) al risarcimento del danno, comprensivo di una notevole penale da ritardo nella consegna dell’immobile. Clausola penale contenuta nel contratto preliminare e non riportata nel definitivo.
La convenuta presentava quindi appello che, tuttavia, veniva dichiarato inammissibile ex art. 348 bis c.p.c. per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento.
L’appellante proponeva, quindi, ricorso per Cassazione ottenendo ragione delle proprie doglianze con rimessione al giudice dell’appello.
L’orientamento della Corte
La ricorrente, venditrice del compendio immobiliare e soccombente in primo e secondo grado, affidava il proprio ricorso a 4 diversi motivi.
Con il primo motivo la ricorrente contestava l’applicabilità della clausola penale contenuta nel contratto preliminare ritenuta, ingiustamente, assorbita nel definitivo, da parte dei giudici di merito.
Secondo il Tribunale, infatti, la clausola penale inserita nel preliminare non poteva dirsi tacitamente rinunciata per il solo fatto di non esser stata citata nel definitivo, essendo necessaria una espressa dichiarazione in tal senso da parte di chi ne aveva diritto.
A sostegno della propria tesi il Tribunale portava la pronuncia n. 13262/2009 che stabiliva una sorta di “fissità” della clausola penale nel tempo. Tuttavia tale orientamento, definito dalla stessa Corte come “isolato e non massimato” è stato superato da molteplici pronunce, sia precedenti che successive.
Secondo l’orientamento prevalente (cfr. Cass. N.ri 7206/1999, 8515/2003, 15585/07, 9063/2012, 7064/2016) confermato dalla Corte con la recente pronuncia, l’unica fonte di diritti ed obblighi per le parti contraenti è il contratto definitivo che supera tutti i patti anteriori. La manifestazione di volontà, quindi, è richiesta non per rinunciare alle clausole pattuite in sede di preliminare ma, all’opposto, per mantenerle in vita con il contratto definitivo.
Si tratta di una sorta di presunzione di conformità del nuovo accordo alla volontà attuale delle parti. Detta presunzione può essere vinta mediante prova di un accordo stipulato contemporaneamente al definitivo, con cui i contraenti manifestano la volontà di mantenere in vita determinati diritti ed obblighi di cui al preliminare.
Diversamente la fonte esclusiva di diritti ed obblighi delle parti è da individuarsi nel solo contratto definitivo.
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Test del DNA errato? Sì al danno parentale anche senza legami di sangue
Il danno conseguente alla perdita del rapporto parentale deve essere riconosciuto a prescindere dal legame di sangue, o dall’esistenza in vita della persona perduta.
La lesione sussiste se risulta compromessa una relazione caratterizzata da stabilità, consuetudini di vita e abitudini comuni, che creano quel sentimento di protezione e sicurezza tipico del rapporto padre-figlio.
Nella liquidazione del danno non patrimoniale di cui all’articolo 2059 cod. civ. occorre valutare l’aspetto della sofferenza morale e dell’alterazione delle attività dinamico relazionale tra i soggetti.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 20835/2018, chiarisce che la lesione causata dalla perdita del legame parentale, spetta anche in assenza di consanguineità, se esiste un rapporto affettivo.
Il caso
La vicenda è di quelle che fanno notizia e ha inizio nel 2000 quando una donna si rivolge alla struttura sanitaria di Como per far svolgere il test del DNA sul figlio e far accertare la paternità dello stesso, avendo intrattenuto alcune relazioni contemporaneamente.
Il test attribuisce la paternità ad un uomo che si scopre a distanza di tre anni, non essere, invece, il padre naturale del bimbo. Il padre si allontana dal minore.
La donna inizia l’iter giudiziario rivolgendosi al tribunale di Como per avere il risarcimento di tutti i danni subiti da lei e dal figlio in seguito all’errata esecuzione dell’accertamento effettuato dai medici della struttura sanitaria, chiedendo in particolare di essere risarcita per il danno causato al bambino, derivante dalla perdita della relazione con il padre e i nonni, con i quali era stata instaurata una relazione affettiva.
Il tribunale di Como condanna il medico e l’azienda sanitaria a pagare al figlio e alla madre la somma di euro 38.800 per danno non patrimoniale da lesione dell’integrità psico-fisica nella misura dell’11 % per il figlio e del 5% per la madre in base alle tabelle del danno biologico del Tribunale di Milano.
I giudici respingono, invece, la richiesta di danno da perdita del rapporto parentale, non risultando provata l’esistenza del legame affettivo.
In sede di appello, la Corte aumenta l’entità del risarcimento portandolo ad euro 47.000 sempre a titolo di danno non patrimoniale, con esclusione del danno da perdita del rapporto parentale dovuta all’assenza del rapporto di parentela con il bimbo.
In Cassazione la donna ritiene violate le norme sul risarcimento del danno, e fa rilevare l’errore in cui sarebbe occorsa la Corte d’appello nel negare la risarcibilità del danno da lesione parentale, poiché pur in assenza di legame di sangue, era già stato creato tra il bambino e padre (e i nonni paterni) un rapporto significativo.
Il riconoscimento del danno da lesione parentale
La Corte di Cassazione, censurando la motivazione della Corte territoriale, afferma che la lesione del rapporto parentale deve essere riconosciuta a prescindere dal legame di sangue, o dall’esistenza in vita della persona perduta.
Il danno sussiste se risulta compromesso un legame caratterizzato da stabilità, consuetudini di vita e abitudini comuni, che creano quel sentimento di protezione e sicurezza tipico del rapporto padre-figlio.
L’entità del danno è invece riconfermata dalla Cassazione, avendo la Corte d’appello milanese già elevato l’importo liquidato dal tribunale, nel quale è ricompreso anche il danno derivante dalla sofferenza morale e dalla modificazione dei rapporti relazionali.
La giurisprudenza della Cassazione ha definito la perdita del legame parentale come “…vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti” (Cass. Civ. 9 maggio 2011 n. 10107).
Con la decisione odierna la Corte di Cassazione riconosce tale tipo di lesione anche di là dalle ipotesi di morte di un prossimo congiunto e anche in assenza di consanguineità tra i soggetti.
(Altalex, 18 settembre 2018. Nota di Giuseppina Vassallo)
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Assegno divorzile: i criteri per calcolarlo dopo le Sezioni Unite
L’art. 5, sesto comma, della Legge n. 898/1970 prevede che con la sentenza di divorzio il Tribunale può disporre la corresponsione di un assegno periodico in favore del coniuge che non ha mezzi adeguati o non possa procurarseli per ragioni oggettive.
Il Giudice dovrà in tal caso procedere tenendo conto dei criteri contemplati dalla norma (condizioni e reddito dei coniugi, ragioni della decisione, contributo alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio, proprio o comune), da valutare anche in rapporto alla durata del matrimonio.
La sentenza n. 18287/2018 delle Sezioni Unite ha decretato il superamento dello “storico” criterio del tenore di vita dei coniugi come parametro di determinazione dell’assegno divorzile, creando notevoli problemi interpretativi ed applicativi, soprattutto rispetto a quei procedimenti ancora pendenti in Cassazione all’epoca della pronuncia.
Con l’ordinanza n. 11178 del 23 aprile 2019 la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha indicato quali siano i criteri e le valutazioni determinanti in materia di assegno divorzile, alla luce della recente evoluzione giurisprudenziale.
Il caso
La pronuncia trae origine dal ricorso proposto contro una sentenza della Corte d’Appello di Roma che aveva confermato la sentenza di primo grado, attributiva dell’assegno divorzile in favore della ex coniuge del ricorrente.
Quest’ultimo contestava il diritto della beneficiaria a percepire l’assegno, lamentando che la Corte si fosse limitata a comparare i redditi delle parti senza verificare se la richiedente fosse oggettivamente impossibilitata a procurarsene di propri.
Contestava inoltre l’ammontare dell’assegno, rilevando che la Corte avesse valutato unicamente la disparità reddituale esistente tra le parti, omettendo invece di applicare i criteri dettati dall’art. 5 della Legge n. 898 del 1970 in punto di quantificazione dell’assegno.
Muovendo dalle predette censure e dal dettato del sopra richiamato articolo 5 della norma sul divorzio, la prima sezione della Corte di Cassazione ha ripercorso la posizione della giurisprudenza sul punto, nel tentativo di chiarire i criteri di determinazione dell’assegno divorzile.
Assegno divorzile: l’evoluzione giurisprudenziale e la pronuncia delle Sezioni Unite
Per circa trent’anni il criterio guida nell’interpretazione dell’art. 5, sesto comma, della legge sul divorzio è stato quello di attribuire all’avente diritto un assegno tale da consentirgli di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio.
Tale posizione interpretativa, fortemente criticata da quella dottrina timorosa che ciò potesse creare ingiustificate rendite di posizione, è stata poi progressivamente superata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 11504 del 2017 che ha affermato l’orientamento opposto, negando il riconoscimento dell’assegno divorzile al richiedente che fosse economicamente autosufficiente (in tal senso si veda anche la sentenza n. 23602/2017).
L’acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale sorto tra i due contrapposti orientamenti è culminato nel noto intervento delle Sezioni Unite, che con la recente sentenza n. 18287 dell’11 luglio 2018 hanno adottato una linea interpretativa di totale rottura rispetto al passato, sintetizzata nei punti che seguono:
a) definitivo abbandono di entrambi i criteri (tenore di vita ed autosufficienza economica del richiedente) posti alla base dei contrapposti orientamenti sopra richiamati;
b) superamento della struttura necessariamente bifasica del procedimento di determinazione dell’assegno divorzile, abbandonando così la distinzione fondata sulla natura attributiva o determinativa dei criteri richiamati dall’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio;
c) disconoscimento di una funzione meramente assistenziale all’assegno divorzile, a favore di una natura composita dello stesso, che alla funzione assistenziale unisce quella perequativa e compensativa;
d) pariteticità ed equiordinazione dei criteri previsti all’art. 5, sesto comma, della Legge n. 898/1970;
e) abbandono di una concezione astratta del criterio di “adeguatezza/inadeguatezza dei mezzi”, a favore di una visione concreta, relativa allo specifico contesto coniugale;
f) valutazione necessariamente complessiva dell’intera storia coniugale e prognosi futura, determinando l’assegno in base all’età e allo stato di salute dell’avente diritto, nonchè alla durata del vincolo coniugale;
g) valorizzazione del profilo perequativo – compensativo dell’assegno, accertando in maniera rigorosa il nesso causale esistente tra scelte endo-familiari e situazione del richiedente al momento di scioglimento del vincolo coniugale.
Con tale pronuncia le Sezioni Unite hanno dunque abbandonato la prospettiva individualista fatta propria dalla Corte nel 2017 (Cass. n. 11504/2017), valorizzando il principio di solidarietà post coniugale nel pieno rispetto degli artt. 2 e 29 della Costituzione.
Diretta conseguenza di tale impostazione è che, al fine di stabilire se ed eventualmente in che misura spetti l’assegno divorzile, il Giudice dovrà procedere secondo l’iter logico sopra delineato.
In primo luogo dovrà comparare, anche d’ufficio, le condizioni economico – patrimoniali delle parti.
Qualora risulti che il richiedente è privo di mezzi adeguati o è oggettivamente impossibilitato a procurarseli, dovrà accertare rigorosamente le cause di questa sperequazione alla luce dei parametri indicati all’art. 5 sesto comma della Legge n. 898/1970.
In particolare dovrà valutare se ciò dipenda dal contributo che il richiedente ha apportato al nucleo familiare e alla creazione del patrimonio comune, sacrificando le proprie aspettative personali e professionali in relazione alla sua età e alla durata del matrimonio.
All’esito di tali valutazioni dovrà infine quantificare l’assegno divorzile, rapportandolo non (più) al pregresso tenore di vita familiare né all’autosufficienza economica del richiedente, ma assicurando all’avente diritto un livello reddituale adeguato al contributo fornito come sopra indicato.
I chiarimenti della Corte di Cassazione
La pronuncia delle Sezioni Unite ha avuto un effetto dirompente sui processi in corso, incidendo non solo sull’interpretazione del quadro normativo di riferimento ma anche e soprattutto sul piano processuale di selezione delle allegazioni dei fatti rilevanti e di conseguente prova degli stessi.
Ciò è particolarmente evidente per quelle pronunce di appello relative all’attribuzione e quantificazione dell’assegno divorzile già impugnate in Cassazione, ma non ancora definite da quest’ultima all’epoca della pronuncia resa dalle Sezioni Unite.
La I sezione della Corte ha osservato infatti come l’individuazione di una nuova regola giuridica di valutazione comporti molto spesso la valorizzazione di un diverso quadro fattuale ed in particolare di quegli elementi non considerati alla luce della regola previgente perché ritenuti irrilevanti.
Conseguenza di ciò è che la Corte di Cassazione potrà pronunciarsi sull’impugnazione solo se la nuova regola interpretativa affermata dalle Sezioni Unite non abbia reso necessario l’accertamento di nuovi fatti.
In caso contrario la Suprema Corte dovrà cassare con rinvio la sentenza impugnata, con il vincolo per il giudice del rinvio di attenersi alla nuova regola di valutazione e con conseguente riconoscimento alle parti dei poteri di allegazione e probatori derivanti dalla nuova impostazione scaturita dalla pronuncia delle Sezioni Unite.
A conferma di quanto affermato la Corte ha richiamato una recentissima statuizione della giurisprudenza di legittimità che ribadisce che la riassunzione della causa dinanzi al giudice del rinvio, conseguente alla cassazione della sentenza, instaura un processo chiuso in cui è precluso presentare nuove domande, eccezioni e conclusioni, salvo che queste siano rese necessarie da statuizioni della sentenza della Corte di Cassazione (Cass. n. 5137 del 2019).
Nel caso di specie la Corte ha concluso dunque che la decisione impugnata, poiché resa in applicazione di una regola interpretativa ormai superata dalla ben nota pronuncia delle Sezioni Unite, dovesse essere cassata con rinvio ai giudici d’appello per un nuovo esame della questione.
https://www.altalex.com/documents/news/2019/05/03/assegno-di-divorzio
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Scuola, no al panino da casa!
Le Sezioni Unite si pronunciano sulla controversa questione riguardante la configurabilità di un diritto soggettivo dei genitori degli alunni di scuole elementari e medie di scegliere tra l’autorefezione scolastica e il pasto portato da casa (sentenza n. 20504/2019 – scarica il testo in calce).
Sommario
1. La questione “panino da casa”
1. La questione “panino da casa”
Ancora una volta si torna a discutere dei servizi scolastici e, tra le righe, di quella che è la differenza tra il figlio di “…” e quello che non si può permettere certi lussi, come la retta della mensa scolastica. Potrebbe apparire banale ma il numero delle famiglie italiane che non può permettersi di far mangiare i figli a scuola è elevato (si stima che il prezzo medio di un singolo pasto ammonti a 4 euro), e la questione è più volte arrivata nelle aule di giustizia.
Stavolta il legal speaker di turno è addirittura il massimo consesso di Piazza Cavour, il quale, a chiare lettere, ha sentenziato l’inesistenza di un “diritto soggettivo” a mangiare il panino portato da casa “nell’orario della mensa e nei locali scolastici”, rilevando che la gestione del servizio di refezione è rimesso “all’autonomia organizzativa” delle scuole.
2. I gradi di merito
Il caso esaminato si è svolto a Torino e il giudice di merito, in prima battuta, aveva chiuso le porte della mensa scolastica al cibo preparato dalla famiglia: in primo grado il Tribunale aveva optato per la tesi esposta dall’Amministrazione torinese (contrapposta a quella di un cospicuo gruppo di genitori di bambini di scuola prima e secondaria di primo grado), escludendo un diritto alla prestazione mensa con modalità particolareggiate, differenti da quelle previste dalla normativa vigente, o ad un servizio alternativo rispetto a quello interno alla scuola, per chi intende consumare il pasto preparato in casa.
La Corte d’Appello di Torino, in seguito, aveva affermato la sussistenza, alla luce della disciplina vigente e dei principi costituzionali in materia di diritto all’istruzione, all’educazione e all’autodeterminazione inerenti le scelte alimentari, di diritti soggettivi dei genitori degli alunni delle scuole dell’obbligo, sia all’opzione, per i propri figli, tra il servizio di ristorazione scolastica ed il pasto portato da casa, sia il relativo consumo negli ambienti scolastici nello stesso orario del servizio di ristorazione. Quindi il Comune di Torino ha depositato ricorso, che ha visto il placet degli ermellini romani.
3. L’istituzione scolastica
Il collegio delle Sezioni Unite ha evidenziato che l’istituzione scolastica non è un luogo dove si esercitano in modo libero i diritti degli alunni, e il rapporto con l’utenza non va inquadrato in termini meramente negoziali, bensì viene identificato in un luogo ove lo sviluppo della personalità dei singoli discenti, e la valorizzazione delle particolarità individuali, devono realizzarsi nei limiti della compatibilità con gli interessi degli ulteriori alunni e della comunità, così invocando le regole del reciproco rispetto, della tolleranza, della condivisione.
4. Il ruolo dei genitori
Viene rilevato che i genitori “sono tenuti nei confronti di genitori degli alunni portatori di interessi contrapposti all’adempimento dei doveri di solidarietà sociale, oltre che economica, richiesti per l’attuazione anche dei diritti inviolabili dell’uomo, a norma dell’articolo 2 della Costituzione”.
5. Il principio di diritto
E’ stato quindi riconosciuto “il principio secondo cui un diritto soggettivo perfetto e incondizionato all’autorefezione individuale, nell’orario della mensa e nei locali scolastici, non è configurabile e, quindi, non può costituire oggetto di accertamento da parte del giudice ordinario, in favore degli alunni della scuola primaria e secondaria di primo grado”.
CASSAZIONE CIVILE, SS.UU., SENTENZA N. 20504/2019 >> SCARICA IL TESTO PDF
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Uso del cellulare: riconosciuto il nesso con alcuni tipi di tumore
Il giudice territoriale di Torino ha confermato la pronuncia del Tribunale di Ivrea, del 2017, che aveva sentenziato sul rapporto tra l’uso del cellulare e l’insorgenza dei tumori.
La vicenda riguarda un dipendente Telecom affetto da neurinoma del nervo acustico.
La vicenda
Un dipendente di Telecom Italia ha passato 15 anni della sua vita professionale utilizzando il telefonino, per oltre tre ore al giorno e senza protezioni. Gli veniva diagnosticato un neurinoma al nervo acustico, neoplasia di indole benigna, tuttavia invalidante. Portata la vicenda sui banchi della giustizia, il consulente tecnico d’ufficio nominato dal giudice del Lavoro di Ivrea aveva riconosciuto un danno biologicopermanente pari al 23%, così comportando alla condanna dell’INAIL al pagamento di un’indennità vitalizia, da malattia professionale, di circa 500 euro mensili.
Il nesso causale
Il tempo trascorso, in misura considerevole al cellulare e l’insorgenza del tumore al cervello sono collegati causalmente, secondo la Corte d’Appello di Torino. Per gli stessi togati “esiste una legge scientifica di copertura che supporta l’affermazione del nesso causale secondo i criteri probabilistici ‘più probabile che non’”. I giudici territoriali hanno infatti confermato il dictum, già emesso in prima battuta dal Tribunale di Ivrea e con cui, nell’aprile 2017, l’Inail era stata condannata a corrispondere al lavoratore in questione una rendita vitalizia da malattia professionale.
Il rischio
Secondo uno studio occorrono solamente 30 minuti al giorno per otto anni, trascorsi col telefonino all’orecchio per essere a rischio di tumore.
Lo studio dell’ISS
La sentenza, che ha condiviso la lettura assegnata dalla consulenza tecnica, riconosce il nesso eziologico tra impiego massiccio del cellulare ed insorgenza di tumori al cervello, ma l’Istituto superiore di Sanità, che ha condotto una metanalisi degli studi pubblicati dal 1999 al 2017, qualche mese fa, pubblicandone gli esiti, ha concluso che, sulla base delle evidenze epidemiologiche attualmente a disposizione, l’utilizzo del telefono cellulare non risulta associato all’incidenza di neoplasie nelle aree più esposte alle radiofrequenza nel corso delle chiamate vocali.
Più in dettaglio, il Rapporto Istisan “Esposizione a radiofrequenze e tumori” curato da Istituto superiore di sanità, Arpa Piemonte, Enea e Cnr-Irea, pur affermando che i dati attuali “non consentono valutazioni accurate del rischio dei tumori intracranici e mancano dati sugli effetti a lungo termine dell’uso del cellulare iniziato durante l’infanzia”, rileva che, dalla metanalisi dei molteplici studi pubblicati in quasi due decenni, non si evidenziano incrementi dei rischi di tumori maligni o benigni in relazione all’impiego prolungato (dato fissato a 10 anni) dei telefoni mobili.
Gli esperti dell’ISS hanno inoltre rilevato, nello stesso Rapporto, che “i notevoli eccessi di rischio osservati in alcuni studi non sono coerenti con l’andamento temporale dei tassi d’incidenza dei tumori cerebrali che, a quasi 30 anni dall’introduzione dei cellulari, non hanno risentito del rapido e notevole aumento della prevalenza di esposizione”.
Guardando al domani, e in particolare alle reti 5G, per stesso studio le emittenti aumenteranno, tuttavia avranno potenze medie inferiori a quelle degli impianti correnti, e la rapida variazione temporale dei segnali dovuta all’irradiazione indirizzabile verso l’utente (beam-forming) comporterà un’ulteriore diminuzione dei livelli medi di campo negli spazi circostanti.
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Auto blocca l’accesso al cortile condominiale: è violenza privata
Chi impedisce alle altre automobili di accedere al cortile comune risponde del reato di violenza privata.
Questo è quanto emerge dalla sentenza 19 dicembre 2019, n. 51236 (testo in calce) della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione.
Il caso vedeva un uomo essere ritenuto responsabile del delitto di cui all’art. 610 c.p., perché si rifiutava di rimuovere la propria automobile parcheggiata all’ingresso di un cortile in uso anche ad altro condomino, così impedendo a quest’ultimo di accedere al garage e di prelevare attrezzi di sua proprietà che erano ivi depositati.
La norma dispone che chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa sia punito con la pena della reclusione fino a quattro anni, aumentata nel caso in cui ricorrano le circostanze aggravanti di cui all’art. 339 c.p., ovvero se la violenza o la minaccia siano commesse con armi, da persone travisate, da più persone riunite, con scritto anonimo, in modo simbolico o valendosi della forza intimidatrice derivante da associazioni segrete, esistenti o solo supposte.
La disposizione mira quindi a tutelare l’interesse dello Stato a garantire a ciascun soggetto la libertà morale, ovvero la facoltà di autodeterminarsi liberamente, di essere libero e di sentirsi come tale, sempre nel rispetto dei limiti imposti dall’ordinamento giuridico. Il bene giuridico tutelato è, quindi, la libertà psichica della persona, che non deve essere pregiudicata da un qualsivoglia comportamento violento o intimidatorio idoneo a determinare una coartazione, diretta o indiretta, sulla libertà di azione delle persone.
Secondo la difesa dell’imputato nella fattispecie non poteva ritenersi sussistente la fattispecie di violenza privata in quanto il rifiuto addebitato non poteva dirsi equiparabile alla violenza o alla minaccia richieste per l’integrazione del reato.
Di diverso avviso la Cassazione: secondo gli ermellini, infatti, per quanto attiene la configurabilità del reato di cui all’art. 610 c.p., la giurisprudenza di legittimità ha sostenuto che integra il delitto di violenza privata la condotta di colui che parcheggi la propria autovettura in modo tale da bloccare il passaggio impedendo l’accesso alla persona offesa, considerato che, ai fini della sussistenza della fattispecie, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione (Cass. pen., Sez. V, 24 febbraio 2017, n. 29261; Cass. pen., Sez. V, 13 aprile 2017, n. 48369).
Con tale decisione la Suprema Corte conferma l’indirizzo giurisprudenziale sopra richiamato, ritenuto oramai assolutamente dominante, che si inserisce in un fenomeno in crescente aumento, che vede dette condotte punibili non solo nel caso in cui il soggetto agente impedisca l’accesso ad un cortile comune ma anche qualora detta condotta impedisca l’accesso ai garage condominiali.
CASSAZIONE PENALE, SENTENZA N. 51236/2019 >> SCARICA IL TESTO PDF
fonte: https://www.altalex.com/documents/news/2020/02/04/auto-blocca-accesso-cortile-condominiale-violenza-privata
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Associazioni non riconosciute: possibile l’esclusione di un socio per gravi motivi
L’art. 24, terzo comma c.c., secondo cui l’esclusione di un associato è possibile solo in presenza di gravi motivi, è applicabile anche alle associazioni non riconosciute.
Ne consegue che in caso di impugnazione della delibera ad opera dell’associato, il giudice dovrà valutare la legittimità formale e sostanziale del provvedimento di esclusione, tenendo conto che la “gravità dei motivi” è un concetto relativo, la cui valutazione è strettamente connessa al modo in cui gli associati lo hanno inteso nell’ambito dell’autonomia loro riconosciuta.
Questo è quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione (sezione I civile) che con l’ordinanza 16 settembre 2019, n. 22986 ha accolto il ricorso proposto, muovendo da un’interpretazione estensiva della norma codicistica citata.
Sommario
- I fatti di causa
- Il ricorso per cassazione: i motivi
- L’interpretazione estensiva dell’art. 24 c.c.
- La pronuncia della Corte
I fatti di causa
La vicenda trae origine da una sentenza del Tribunale di Catania, che dichiarava nulla la delibera con cui un istituto medico aveva disposto l’esclusione di un’associata, rigettando anche la domanda di risarcimento danni avanzata dall’istituto nei confronti della donna.
All’esito dell’impugnazione proposta dal soccombente la Corte d’Appello di Catania confermava la pronuncia di primo grado, ritenendo che i fatti imputati all’associata fossero troppo generici, dunque inidonei a consentirle un adeguato esercizio del diritto di difesa.
La valutazione – osservava la Corte – era peraltro confermata dal contenuto della lettera di contestazione degli addebiti precedentemente indirizzato all’associata.
Il ricorso per cassazione: i motivi
Di avviso contrario l’istituto medico, che impugnava la sentenza per cassazione denunciandone l’illogicità e l’assoluta carenza di motivazione.
Evidenziava in particolare come l’asserita genericità dei comportamenti imputati all’associata fosse in realtà contraddetta dal dato fattuale: sia la lettera di contestazione, sia la delibera impugnata contenevano infatti specifici e puntuali addebiti, integrando peraltro i gravi motivi di esclusione previsti dallo statuto associativo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 24 c.c.
La pronuncia della Corte di Cassazione muove dall’analisi dell’art. 24 c.c., dettato in materia di recesso ed esclusione degli associati.
Il terzo comma della norma prevede in particolare che l’assemblea può deliberare l’esclusione degli associati soltanto se ricorrono gravi motivi e che gli esclusi possono ricorrere all’autorità giudiziaria entro sei mesi dal giorno di notifica della delibera.
Privilegiando un’interpretazione estensiva della norma, la Cassazione la ritiene applicabile anche alle associazioni non riconosciute.
Aggiunge inoltre che qualora l’associato decida di impugnare la delibera di esclusione, il giudice adito potrà e dovrà accertare la legittimità del provvedimento di espulsione sotto un duplice profilo, formale e sostanziale.
Dovrà quindi verificare che l’esclusione sia stata deliberata nel rispetto delle regole procedurali stabilite dalla legge o dall’atto costitutivo dell’ente, ma anche che sia legittima dal punto di vista sostanziale, valutando cioè la sussistenza di una delle ipotesi di risoluzione del rapporto associativo previste dalla legge e dall’atto costitutivo (così Cass. 18186/2004).
La Corte osserva poi che la gravità dei motivi posti alla base di un provvedimento di esclusione è un concetto relativo, la cui valutazione non può prescindere dal modo in cui gli stessi associati lo hanno inteso nell’ambito dell’autonomia associativa loro riconosciuta.
Ne consegue pertanto che se l’atto costitutivo contiene già una descrizione dei motivi ritenuti di gravità tale da provocare l’esclusione dell’associato, l’accertamento giudiziale dovrà limitarsi a verificarne la sussistenza nel caso di specie.
Qualora invece l’atto costitutivo non contenga alcuna specifica indicazione, oppure si sia in presenza di formule generali ed elastiche, da valorizzare di volta in volta in relazione ad ogni singolo caso, o comunque ogniqualvolta la causa di esclusione implichi un giudizio di gravità “post factum“, il vaglio giurisdizionale dovrà necessariamente estendersi anche a tale ultimo aspetto.
In tal caso dovrà valutarsi se il provvedimento adottato è proporzionale al comportamento dell’associato, tenendo conto, da un lato della lesione che questi ha arrecato agli interessi altrui e dall’altro agli effetti che il provvedimento produrrà sulla sua sfera di interessi, presumendone la volontà di permanere all’interno dell’associazione.
La pronuncia della Corte
Nel caso in esame la Corte osserva come lo statuto associativo, riprodotto peraltro nel corpo del ricorso, prevedesse un elenco di cause di esclusione sufficientemente specifiche, tali da costituire un idoneo parametro di valutazione degli addebiti indicati nella delibera di esclusione.
Malgrado ciò, e pur avendo dato atto delle condotte imputate all’associata nella delibera stessa (anche alla luce di una precedente nota richiamata per relationem), la Corte d’Appello ha riferito l’impossibilità di individuare esattamente i comportamenti posti alla base del provvedimento di esclusione, pronunciandone pertanto la nullità.
In realtà, osserva la Cassazione, le menzionate contestazioni, oltre ad avere un grado di specificità sufficiente a consentire l’esercizio del diritto di difesa dell’associata, risultavano peraltro corrispondenti alle ipotesi di esclusione statutarie, dunque erano del tutto inidonee a fondare la declaratoria di nullità della delibera pronunciata dalla Corte d’Appello.
Alla luce di tali considerazioni la Corte ha quindi cassato la sentenza impugnata, rinviando ad altra sezione della Corte d’Appello di Catania, anche per la regolazione delle spese.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 22986/2019 >> SCARICA IL TESTO PDF

Volo soppresso: decide giudice italiano anche se c’è clausola su giurisdizione
In caso di soppressione del volo, qualora i trasportati agiscano per ottenere la compensazione pecuniaria, si applicano i criteri di collegamento indicati dall’art. 33 della Convenzione di Montréal, anche nell’ipotesi in cui il contratto concluso con la compagnia aerea contenga una clausola di proroga della giurisdizione.
Inoltre, nel caso di biglietti acquistati on line, il “luogo ove è sito lo stabilimento del vettore che cura la conclusione del contratto” – menzionato nella Convenzione – coincide con il domicilio degli acquirenti – nella fattispecie in Italia – in quanto luogo ove i ridetti siano venuti a conoscenza dell’accettazione della proposta formulata tramite portale web.
Così ha deciso la Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con l’ordinanza 13 febbraio 2020, n. 3561 (testo in calce).
La vicenda
Una coppia italiana evocava in giudizio la compagnia aerea, da cui aveva acquistato i biglietti, al fine di ottenere il rimborso (la compensazione pecuniaria) per la cancellazione del volo, oltre alla condanna al risarcimento del danno patrimoniale (acquisto di nuovi biglietti, pernottamento in albergo, vitto) e non patrimoniale. Il vettore eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice italiano sulla base di un’apposita clausola contenuta nelle condizioni generali di contratto, accettate dai trasportati, in sede di acquisto on line dei biglietti. Gli attori sollevano il regolamento preventivo di giurisdizione e la Suprema Corte, a Sezioni Unite come previsto dall’art. 41 c.p.c., stabilisce quale sia la disciplina applicabile – tra il Regolamento UE e la Convenzione di Montréal – oltre ad esaminare il contenuto delle condizioni generali di contratto, con particolare riguardo alla clausola di proroga della giurisdizione.
Il quadro normativo
Nel caso di specie vengono in rilievo i tre provvedimenti comunitari seguenti.
> Il Regolamento 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 febbraio 2004 istituisce regole comuni in materia di compensazione e assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, cancellazione del volo o ritardo prolungato(abrogativo del Regolamento CEE 295/1991); il quale prevede indennità forfettarie e la possibilità di chiedere il risarcimento del danno. Tale regolamento non contiene norme sulla giurisdizione, ma solamente una “griglia minima di tutela” a favore dei viaggiatori.
> Il Regolamento UE 1215/2012, anche noto come Bruxelles 1 bis, sostitutivo del Regolamento CE 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale; in particolare, vengono in rilievo:
- l’art. 25 sulla “proroga della competenza”
- l’art. 17 c. 3 ove è stabilito che «La presente sezione [ossia quella relativa ai contratti conclusi dai consumatori] non si applica ai contratti di trasporto che non prevedono prestazioni combinate di trasporto e di alloggio per un prezzo globale»;
- l’art. 71 c. 1 secondo cui «Il presente regolamento lascia impregiudicate le convenzioni, di cui gli Stati membri siano parti contraenti, che disciplinano la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materie particolari».
> La Convenzione di Montréal del 28 maggio 1999, per l’unificazione di alcune norme sul trasporto aereo internazionale, approvata con decisione 2001/539/CE, in particolare:
- l’art. 19, rubricato “Ritardo”, dispone che «Il vettore è responsabile del danno derivante da ritardo nel trasporto aereo di passeggeri, bagagli o merci. Tuttavia, il vettore non è responsabile per i danni da ritardo se dimostri che egli stesso e i propri dipendenti e incaricati hanno adottato tutte le misure necessarie e possibili, secondo la normale diligenza, per evitare il danno oppure che era loro impossibile adottarle»;
- l’art. 33 c. 1, rubricato “Competenza giurisdizionale”, prevede che «L’azione per il risarcimento del danno è promossa, a scelta dell’attore, nel territorio di uno degli Stati parti, o davanti al tribunale del domicilio del vettore o della sede principale della sua attività o del luogo in cui esso possiede un’impresa che ha provveduto a stipulare il contratto, o davanti al tribunale del luogo di destinazione»;
- l’art. 49 rubricato “Imperatività” stabilisce che «sono nulle tutte le clausolecontenute nel contratto di trasporto e tutti gli accordi speciali conclusi prima del verificarsi del danno con i quali le parti mirano ad eludere le disposizioni della presente convenzione sia determinando la legislazione applicabile sia modificando le norme sulla competenza giurisdizionale.»
Opera il Regolamento Bruxelles I bis o la Convezione?
Secondo la compagnia aerea, sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice irlandese in virtù di un’apposita clausola, accettata dai trasportati, con l’apposizione del segno di spunta (point and click), al momento dell’acquisto del titolo di viaggio tramite portale web. La suddetta clausola opera solo nel caso di acquisto di biglietti e non già nell’ipotesi in cui il consumatore acquisti il pacchetto (volo e soggiorno). La clausola di proroga della giurisdizione è disciplinata dall’art. 25 del Regolamento 1215/2012, in cui si stabilisce che le parti, concordemente, possono convenire la competenza di una specifica autorità giurisdizionale, purché tale pattuizione avvenga per iscritto. Nel caso di specie, la clausola accettata dai trasportati prevedeva la giurisdizione del giudice irlandese, fatto salvo quanto previsto dalla Convenzione di Montréal.
Replicando a quanto sopra, i trasportati-ricorrenti precisano come l’art. 71 del Regolamento 1215/2012 (Bruxelles I bis) lasci impregiudicate le convenzioni tra gli Stati membri. Orbene, tra Italia e Irlanda sussiste la succitata Convenzione di Montréal in materia di traffico aereo. Tale accordo, quindi, prevale sulle disposizioni contrattuali eventualmente predisposte dal vettore, in forza della sua imperatività (art. 49). In altre parole, secondo i ricorrenti sulla clausola da loro sottoscritta prevalgono le disposizioni della Convenzione (art. 33) in quanto imperative (art. 49).
Da quanto sopra, si evince che la questione giuridica da dirimere riguarda l’ambito applicativo delle due diverse diposizioni: il Regolamento e la Convezione. Come vedremo, la Suprema Corte considera prevalente la disposizione convenzionale e radica la giurisdizione in Italia.
Di seguito analizziamo le ragioni della decisione.
Validità delle clausole accettate con il point and click
Le clausole generali di contratto accettate semplicemente flaggando (ossia mettendo il segno di spunta) alla relativa casella, nell’ambito di una procedura di acquisto on line, sono considerate valide, in linea generale, o meglio, è valida la modalità di accettazione delle stesse. In tal senso, si è espresso il giudice europeo (Corte di Giustizia, sent. 21 maggio 2015, C- 322/14, Cars on the web) e la giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U. 21622/2017). Le suddette modalità di stipulazione dell’accordo di proroga della giurisdizione sono valide, purché siano redatte per iscritto. La forma scritta si ritiene integrata da “qualsiasi comunicazione con mezzi elettronici che permetta una registrazione durevole dell’accordo attributivo di competenza” (art. 25 c. 2 Regolamento 1215/2012). Inoltre, la clausola di proroga della giurisdizione, contenuta in condizioni generali di contratto, disponibili mediante accesso ad un sito Internet, rispetta quanto detto, se consente di stampare e salvare il testo delle condizioni prima della conclusione del contratto.
L’interpretazione delle clausole di deroga della giurisdizione
La giurisprudenza di legittimità e quella comunitaria sono costanti nel ritenere che le clausole di deroga della giurisdizione, come quelle menzionate dall’art. 25 Reg. cit., debbano essere interpretate restrittivamente (Cass. 1311/2017). Orbene, come ricordato, la clausola in discorso fa salvo quanto diversamente previsto dalla Convenzione di Montréal, nel rispetto del disposto dell’art. 49 della Convenzione stessa, che dispone l’imperatività delle proprie norme e la nullità delle clausole contrastanti contenute nei contratti di trasporto.
Riassumendo:
- la clausola sottoscritta tra le parti (trasportati e vettore) contiene una deroga alla giurisdizione,
- la clausola fa salvo il contenuto della Convenzione di Montréal,
- è nulla qualsiasi clausola contrastante con le norme della Convenzione.
Tutto ciò premesso, è la Convenzione che regola la giurisdizione. Essa contiene dei criteri alternativi per radicare la competenza giurisdizionale, tra i quali la possibilità per l’attore di scegliere (art. 33)
- il tribunale del domicilio del vettore o della sede principale della sua attività o del luogo in cui esso possiede un’impresa che ha provveduto a stipulare il contratto,
- il tribunale del luogo di destinazione.
Nel caso di specie, il volo sia in partenza che in arrivo si era svolto sul territorio nazionale, pertanto, la causa poteva correttamente radicarsi in Italia, in virtù dell’ultimo criterio di collegamento. Invero, la giurisdizione italiana è giustificata anche dal ricorso ad altro criterio quale “il luogo in cui il vettore possiede uno stabilimento per la conclusione del contratto”, come vedremo nei paragrafi successivi.
Ambito di operatività della Convenzione di Montréal
Secondo la compagnia aerea, la Convenzione si applica in caso di richiesta di risarcimento di danni da ritardo, ma non nella più grave ipotesi di cancellazione del volo, come quello che ci occupa. Pertanto, secondo la resistente, dovrebbe trovare applicazione il Regolamento 1215/2012, in particolare l’art. 25 dettato in tema di proroga della competenza. La Suprema Corte confuta tale ricostruzione, in quanto contraria alla lettera della norma e alla sua ratio. La Convenzione, tra gli altri ambiti (come morte e lesione dei passeggeri, danni ai bagagli, danni alla merce), si occupa di danno da ritardo, statuendo che «il vettore è responsabile del danno derivante da ritardo nel trasporto aereo di passeggeri, bagagli o merci […]» (art. 19). Dal dato letterale, emerge il riferimento al ritardo nel trasporto aereo (non già al “volo” stricto sensu inteso), con esso intendendo «la complessiva operazione di trasporto aereo dedotta in contratto fino alla sua destinazione finale». Pertanto, il ritardo a cui fa riferimento il citato art. 19, può riguardare il volo di andata, di ritorno, il protrarsi dello scalo fino a perdere la coincidenza, finanche la soppressione di uno dei due voli con necessità di sostituirlo con un altro.
Infatti, anche la soppressione del volo può costituire una causa di ritardo nel completamento dell’operazione di trasporto aereo. Dunque, non solo l’esegesi del testo consente di comprendere nell’alveo della Convenzione la soppressione del volo, ma anche la sua ratio. Infatti, l’articolo comprende le principali ipotesi di danni connesse al trasporto aereo, quindi, sarebbe incongruo escludere il caso più grave di inadempimento – ossia la soppressione del volo – e ricomprendervi quello più lieve, come il ritardo (Cass. S.U. 18257/2019; Cass. 1584/2018).
La Convenzione di Montréal prevale sul Regolamento Bruxelles I bis
La compagnia aerea ritiene che la giurisdizione debba individuarsi ai sensi degli artt. 25 e 17 del Reg. UE 1215/2012, considerandoli prevalenti sulla Convenzione. Invero, tale ricostruzione non può essere condivisa, in quanto è lo stesso Regolamento che, onde prevenire conflitti, prevede “che il presente regolamento non incida sulle convenzioni alle quali gli Stati membri aderiscono e che riguardano materie specifiche” (considerando 35); inoltre, l’art. 71 Reg. cit. prevede che “il presente regolamento lascia impregiudicate le convenzioni, di cui gli Stati membri siano parti contraenti, che disciplinano la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materie particolari”.
Da quanto sopra emerge, la specialità della Convenzione, la quale si occupa segnatamente di unificare alcune norme, prima di tutto in materia di giurisdizione, relative al trasporto aereo; mentre il Regolamento in commento concerne in generale la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale.
Infine, per completezza, la Cassazione precisa come la giurisdizione del giudice italiano si fondi sull’art. 33 della Convenzione e non già con riferimento al foro del consumatore individuato dal Regolamento. Infatti, «il predetto regolamento non può essere applicato perché il paragrafo 3 stabilisce espressamente la sua esclusione nel caso di contratti di mero trasporto “che non prevedono prestazioni combinate di trasporto e di alloggio per un prezzo globale”, come nella specie, secondo la univoca prospettazione delle parti» (Cass. S.U. 18257/2019; Corte di Giustizia, sent. C-464/2018).
Conclusioni
In definitiva, secondo la Corte di Cassazione, nel caso di specie, la giurisdizione si radica in Italia:
- sia in applicazione del criterio di collegamento del luogo di destinazione del viaggio (in quanto si trattava di una tratta su territorio nazionale),
- sia in applicazione del criterio di collegamento del “luogo ove è sito lo stabilimento del vettore che cura la conclusione del contratto”.
In particolare, tale ultimo luogo coincide, nel caso di acquisto on line di biglietti per il trasporto aereo internazionale, con il domicilio degli acquirenti – quale luogo nel quale gli stessi siano venuti a conoscenza dell’accettazione della proposta formulata con l’invio telematico dell’ordine e del pagamento del corrispettivo (così Cass. 18257/2019).
Pertanto, i giudici di legittimità concludono il loro percorso argomentativo affermando che:
«ai fini della individuazione del giudice avente giurisdizione a conoscere della controversia avente ad oggetto la compensazione pecuniaria per il ritardo nello svolgimento delle operazioni di trasporto aereo, subito da acquirenti domiciliati in Italia, anche se il contratto concluso con la compagnia aerea contenga una clausola di proroga della giurisdizione, si applicano quindi i criteri di collegamento indicati dall’art. 33 della Convenzione di Montréal».
CASSAZIONE, SS.UU. CIVILI, ORDINANZA N.3561/2020 >> SCARICA IL TESTO PDF
continua
Prodotto difettoso: se la sostituzione è onerosa scatta il risarcimento
In materia di vendita di beni di consumo, se il prodotto è affetto da vizi e non risulta possibile la riparazione o sostituzione, il consumatore ha diritto di agire per il risarcimento del danno.
È pur vero che il Codice del Consumo (art. 130) non prevede espressamente tale facoltà, nondimeno fa salvi i diritti attribuiti al consumatore da altre norme dell’ordinamento (art. 135 c. 2).
Del resto, la direttiva comunitaria (44/1999) ha inteso rafforzare la tutela del soggetto debole e non certo diminuirla, pertanto, il consumatore conserva il diritto di agire per il ristoro del pregiudizio subito, consistente nella somma necessaria all’eliminazione dei vizi.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza del 20 gennaio 2020, n. 1082(testo in calce)
Sommario
- La vicenda
- Riferimenti normativi in materia di prodotti difettosi
- Prodotto difettoso: eliminazione vizi e risarcimento danno
- Tutela del consumatore in base ad altre disposizioni
- Il consumatore ha diritto al risarcimento del danno
- Conclusioni
La vicenda
Il proprietario di un immobile evocava in giudizio il titolare di una ditta individuale per avergli venduto una partita difettosa di “perline” in legno di larice. L’acquirente aveva posizionato le suddette perline nell’orditura del tetto e si era verificato un anomalo restringimento per la perdita di umidità, dopo la messa in posa. L’attore[1] chiedeva la condanna all’eliminazione dei vizi riscontrati in sede di ATP (accertamento tecnico preventivo) e, in via subordinata, il risarcimento dei danni patiti a causa dei vizi del materiale, consistenti nelle spese per il rispristino del tetto. Il venditore si opponeva e chiamava in giudizio il produttore del materiale, il quale, a sua volta, contestava la sussistenza dei vizi. Il tribunale rigettava la domanda principale, consistente nella richiesta di eliminazione dei vizi, in quanto troppo onerosa per il venditore, mentre accoglieva la richiesta risarcitoria, seguendo la quantificazione effettuata dal CTU: inoltre, accoglieva la domanda di garanzia del venditore verso il produttore. L’appello proposto dai soccombenti in primo grado veniva accolto e, in sede di gravame, il giudice riteneva che la domanda di eliminazione dei vizi – rigettata in primo grado – non fosse stata oggetto di impugnazione e, quindi, si fosse formato un giudicato interno sull’eccessiva onerosità del ripristino. Il danno lamentato, secondo il giudicante, era meramente estetico e non poteva consistere nella riparazione del tetto, ma solo nell’eliminazione delle fessure; inoltre, l’attore non aveva formulato una richiesta risarcitoria in tal senso (ma solo quella relativa al ripristino del tetto) e, quindi, l’appellato-soccombente veniva condannato al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. Si giunge così in Cassazione, ove i giudici di legittimità chiariscono che l’applicazione del Codice del Consumo non esclude l’operatività delle regole generali dettate dal Codice civile.
Prima di analizzare il decisum, ricordiamo brevemente le norme che vengono in rilievo.
Riferimenti normativi in materia di prodotti difettosi
La vendita di prodotti di consumo è attualmente disciplinata dal Codice del Consumo (D.Lgs. 206/2005), in cui è confluito il d.lgs. 24/2002, attuativo della direttiva 44/1999, che aveva novellato il Codice civile inserendo gli artt. 1519 da bis a novies. La novellata disciplina si applica ai contratti di compravendita ove
- l’acquirente rivesta la qualità di consumatore,
- l’oggetto siano beni di consumo, ossia qualsiasi bene mobile, anche da assemblare, tranne le utilities come acqua, gas, energia elettrica (art. 128 d.lgs. 206/2005).
Il bene deve essere esente da vizi e si ritiene conforme qualora sia idoneo all’uso al quale è destinato o a quello che intende farne l’acquirente o corrisponde alla descrizione fatta dal venditore (art. 129 d.lgs. 206/2005).
In caso di difetti di conformità opera la garanzia a favore del compratore. Nel caso in esame, vengono in rilievo due disposizioni specifiche.
– Art. 130 rubricato “diritti del consumatore” ove è stabilito che, in caso di prodotto difettoso, il consumatore abbia diritto, in alternativa, alla:
- riparazione del bene,
- sostituzione del prodotto,
- riduzione del prezzo (azione estimatoria o quanti minoris),
- risoluzione del contratto (azione redibitoria).
Si ricorda che il venditore non è tenuto a compiere i primi due interventi (riparazione e sostituzione) qualora siano eccessivamente onerosi (come accaduto nella fattispecie in commento).
– Art. 135 rubricato “tutela in base ad altre disposizioni” ove secondo comma si dispone che, per quanto non previsto dal presente titolo, si applicano le disposizioni del Codice civile in tema di contratto di vendita.
Prodotto difettoso: eliminazione vizi e risarcimento danno
Il ricorrente censura la ricostruzione operata dal giudice del gravame, laddove prevedeva che il compratore non avesse diritto al risarcimento del danno per la sostituzione di tutte le perline (danno emergente), ma solo al ristoro per il danno estetico conseguente al loro restringimento. Il presupposto di tale ragionamento si rinviene nel fatto che l’eliminazione dei vizi fosse troppo onerosa per il venditore. In tal modo opinando, si nega al compratore il risarcimento per la perdita subita (danno emergente) in base alle regole generali dettate dal Codice civile. Come abbiamo visto, l’art. 135 d. lgs. 206/2005 ammette che il consumatore possa ricorre ai rimedi ordinari, che concorrono con quelli apprestati dalla disciplina consumeristica. Infatti, la ratio della normativa comunitaria – confluita nel d.lgs. 206/2005 – consiste nell’aumentare la tutela del consumatore e non nel diminuirla.
Tutela del consumatore in base ad altre disposizioni
Nella compravendita, è diritto del compratore esercitare l’azione di risarcimento danni, anche indipendentemente dalla richiesta di riduzione del prezzo o risoluzione del contratto (art. 1494 c.c.). Ne consegue che al consumatore non debba essere negata una pari facoltà, a maggior ragione nel caso in cui non siano esperibili i rimedi come la sostituzione o riparazione del bene, in quanto troppo onerosi (art. 130 c. 7 d.lgs. 206/2005). L’art. 135, posto a chiusura della disciplina sulla conformità dei prodotti, nel rinviare agli altri diritti attribuiti al consumatore dall’ordinamento, ha inteso garantire all’acquirente uno standard di protezione più pregnante rispetto a quello offerto dalla direttiva 44/1999 (in materia di “vendita e delle garanzie dei beni di consumo”).
Il consumatore ha diritto al risarcimento del danno
Nel caso in esame, il consumatore aveva chiesto – in via principale – la sostituzione delle perline difettose; nondimeno, la suddetta sostituzione era stata negata per l’eccessiva onerosità. Tale accertamento non preclude al consumatore il diritto di chiedere il risarcimento del danno consistente nella somma necessaria ad eliminare i vizi, vale a dire per lo smantellamento del tetto. Come abbiamo visto, l’art. 130 d.lgs. 206/2005 non contempla il risarcimento del danno tra i rimedi esperibili dal consumatore, consistenti nella sostituzione o riparazione del bene, nella riduzione del prezzo o nella risoluzione del contratto. La mancata menzione di tale diritto non esclude che il consumatore possa farvi ricorso, anche in virtù del richiamo alle altre norme dell’ordinamento operato dall’art. 135. Del resto, il ristoro del danno ha lo scopo di porre il consumatore nella stessa condizione in cui si sarebbe trovato se il prodotto fosse stato immune da vizi. Per la giurisprudenza, «la circostanza che un determinato prodotto si riveli inidoneo ad essere adoperato secondo le modalità indicate dal venditore e possa esserlo solo con modalità più dispendiose (per tempi di lavorazione e quantità da impiegare) ben può esser valutata dal giudice di merito ai fini del risarcimento del danno, oltreché sotto l’aspetto della riduzione del prezzo, poiché quest’ultima ristabilisce l’equilibrio patrimoniale solo con riguardo al valore della cosa venduta, ma non elimina il danno determinato dal venditore, consistente nel costo delle maggiori quantità di prodotto utilizzato e di manodopera impiegata» (Cass. 1153/1995, Cass. n. 4161/2015 in materia di appalto).
Conclusioni
Nella fattispecie oggetto di scrutinio, era stato riconosciuto il vizio del prodotto e non era risultata possibile né la sostituzione né la riparazione per eccessiva onerosità. Secondo il percorso argomentativo seguito dai giudici di legittimità, la richiesta risarcitoria non rimane circoscritta nei limiti del danno non coperto dalla sostituzione (troppo onerosa), ma si applicano i criteri ordinari previsti in caso di domanda risarcitoria proposta in assenza di richiesta di risoluzione o riduzione del prezzo. Per questa ragione, il giudice del gravame ha errato ad interpretare i rimedi accordati dal codice del consumo fino a negare al consumatore qualsiasi risarcimento, pure in presenza di un riscontro oggettivo dei vizi. Inoltre, in tema di responsabilità civile, «la domanda con la quale un soggetto chieda il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, senza ulteriori specificazioni, si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta» (Cass. 20643/2016). Per tutte le ragioni sopraesposte, i giudici di legittimità cassano la sentenza con rinvio alla Corte d’Appello, che dovrà attenersi ai principi indicati in tema di risarcimento del danno.
CASSAZIONE CIVILE, SENTENZA N. 1082/2020 >> SCARICA IL TESTO PDF
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