
Minore chiamato all’eredità: con l’accettazione beneficiata scatta la qualifica di erede
Nel caso in cui un minore sia chiamato ad accettare un’eredità ed il suo legale rappresentante abbia effettuato l’accettazione beneficiata, ciò determina l’immediato acquisto della qualità di erede da parte del minore anche in difetto di redazione dell’inventario.
Ne consegue che il minore potrà provvedere a redigere l’inventario entro l’anno dal compimento della maggiore età (in modo da limitare la propria responsabilità rispetto ai debiti ereditari), ferma restando tuttavia la sua qualità di erede.
Questo è quanto statuito dalla Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 15267, depositata il 5 giugno 2019 (scarica il testo integrale).
Il caso
La pronuncia in commento è relativa all’accettazione beneficiata di eredità effettuata da una madre per conto della figlia minore, a seguito della morte del padre.
Durante la decorrenza del termine per la redazione dell’inventario il Tribunale di Bologna condannava la minore al rilascio di un immobile a suo tempo condotto in locazione dal padre (deceduto senza che vi fosse successione nel contratto), nonché al pagamento dei canoni di locazione, indennità di occupazione e spese processuali.
La madre e la stessa figlia, nel frattempo divenuta maggiorenne, impugnavano la sentenza rilevando che la condanna era intervenuta mentre era ancora pendente il termine per la redazione dell’inventario e che la figlia aveva successivamente rinunciato all’eredità.
La Corte d’appello di Bologna rigettava tuttavia l’impugnazione, ribadendo che l’accettazione beneficiata comporta comunque l’acquisto della qualità di erede a prescindere dalla redazione dell’inventario.
L’eventuale compimento di tale formalità incide infatti unicamente in punto di responsabilità dell’accettante per i debiti ereditari, con la conseguenza che anche il successivo atto di rinuncia della figlia era da ritenersi inefficace.
Quest’ultima proponeva quindi ricorso per cassazione, contestando che all’accettazione beneficiata, pendente il termine per redigere l’inventario, conseguisse l’automatico acquisto della qualifica di erede.
L’accettante con beneficio – osservava infatti la ricorrente – sarebbe da considerare mero chiamato, divenendo erede solo all’esito del perfezionamento di una fattispecie a formazione progressiva costituita dall’accettazione beneficiata e dalla redazione dell’inventario entro il termine.
Nel caso di specie, non essendovi stata redazione dell’inventario, l’accettazione non si sarebbe quindi compiuta e la ricorrente avrebbe dovuto considerarsi semplice “chiamata”, con la conseguente possibilità di rinunciare all’eredità come di fatto era accaduto.
Osservava ancora la ricorrente che dalla previsione di cui all’art. 471 c.c., per cui le eredità devolute ai minori e agli interdetti possono accettarsi solo con beneficio di inventario, conseguirebbe che qualora il legale rappresentante non compia l’inventario troverebbe applicazione l’art. 489 c.c.
Il minore (o l’incapace) non diverrebbe quindi erede puro e semplice, in quanto ciò contrasterebbe con la finalità protettiva dell’art. 471 c.c., per cui anche volendo ritenere inefficace la rinuncia effettuata dalla ricorrente questa avrebbe dovuto considerarsi mera chiamata.
La posizione della Corte
Nell’esame del ricorso in oggetto la Corte premette che nel nostro ordinamento il legale rappresentante del minore chiamato ad accettare l’eredità (solitamente entrambi i genitori o quello che esercita la relativa responsabilità sul figlio) può liberamente decidere di accettarla o rinunciarvi.
Sia in caso di accettazione che di rinuncia è comunque necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare, ed in caso di accettazione l’art. 471 c.c. dispone inoltre che questa avvenga necessariamente in forma beneficiata.
La finalità protettiva di tale ultima norma ha come obiettivo quello di assicurare che, una volta compiuto l’inventario, possa evitarsi la confusione tra il patrimonio personale dell’erede e quello del de cuius, con conseguente limitazione della responsabilità dell’erede nei soli limiti dell’attivo ereditario.
Analoga finalità si rinviene nell’art. 489 c.c., ove si prevede che qualora il legale rappresentante del chiamato (minore, interdetto o inabilitato) non compia l’inventario, tali soggetti non sono comunque dichiarati decaduti dal beneficio di inventario, a differenza di quanto avviene in generale per i soggetti capaci.
Muovendo da tali premesse la Corte osserva quindi come la sola forma di accettazione valida in caso di eredità devoluta ai minori è quella beneficiata, mentre ogni altra forma di accettazione, tacita o espressa, è nulla ed improduttiva di effetti, dunque inidonea a conferire al minore la qualità di erede.
Mancando tale forma di accettazione il minore rimane nella posizione di mero “chiamato”, con la conseguenza che il suo legale rappresentante potrà liberamente effettuare l’accettazione beneficiata, così come il minore stesso, una volta divenuto maggiorenne, potrà decidere se accettare o rinunciare (in tal senso si vedano ad es. Cass. n. 1267 del 27/02/1986; Cass. n. 21456 del 15/09/2017) .
Per contro, qualora il genitore o il legale rappresentante del minore effettui l’accettazione beneficiata, ciò determina in ogni caso l’acquisto della qualità di erede da parte del minore, potendosi unicamente distinguere se dovrà trattarsi di erede beneficiato (e dunque limitatamente responsabile per i debiti ereditari) o di erede puro e semplice, a seconda che venga compiuto o meno l’inventario entro un anno dal raggiungimento della maggiore età.
Ad avviso della Corte le tesi sostenute dalla ricorrente sono dunque viziate da una confusione di fondo relativa alla nozione a fattispecie progressiva, da questa erroneamente riferita alla qualità di erede e non, come correttamente operato da dottrina e giurisprudenza, all’accettazione beneficiata.
E’ solo rispetto a quest’ultima che può infatti parlarsi di fattispecie a formazione progressiva, composta da dichiarazione ed inventario e (una volta perfezionata) dalla conseguente limitazione di responsabilità, mentre l’acquisto della qualità di erede consegue istantaneamente ed automaticamente all’accettazione beneficiata anche in difetto di redazione dell’inventario.
La Corte ha pertanto rigettato il ricorso, condannando la ricorrente alle spese.
(Altalex, 17 giugno 2019)
continua
Autotutela del promissario acquirente: pericolo di evizione deve essere attuale
Con la sentenza n. 8571 del 27 marzo 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il carattere di necessaria attualità del pericolo di rivendica del bene, a fronte del quale il compratore può legittimamente sospendere il pagamento del prezzo, così come previsto dall’art. 1481 del Codice Civile.
La norma, come è noto, consente al compratore di sospendere il pagamento del prezzo, o di chiedere al venditore la prestazione di idonea garanzia, qualora abbia ragione di temere la rivendica del bene da parte di un terzo.
Ma a quali condizioni può esercitarsi tale facoltà? La Corte, con la sentenza in esame, è tornata ad esprimersi sul punto, con specifico riferimento alla posizione del promissario acquirente.
1. I fatti di causa: inadempimento e pericolo di rivendica
La pronuncia trae origine dalla domanda di risoluzione di un contratto preliminare di compravendita, con contestuale richiesta di condanna dei convenuti alla restituzione del doppio della caparra e al risarcimento del danno, avanzata dalla promissaria acquirente.
Quest’ultima argomentava le proprie richieste, lamentando il pericolo di evizione dell’immobile oggetto del contratto, proveniente da una donazione, a detta dell’attrice potenzialmente lesiva delle quote riservate ai legittimari del donante, uno dei quali, peraltro, non si era reso disponibile ad intervenire alla stipula del definitivo poiché interdetto.
Si opponevano i convenuti, affermando che l’attrice fosse pienamente consapevole della situazione dell’immobile e chiedendo a loro volta che venisse accertato l’inadempimento della promissaria acquirente e la sua condanna al risarcimento del danno, o, in subordine, il loro diritto a trattenere la caparra ricevuta.
La domanda dell’attrice veniva accolta in prima istanza dal Tribunale di Napoli e poi ulteriormente confermata in sede di appello, giungendo dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione, all’esito del ricorso proposto dai promittenti alienanti.
Questi ultimi rilevavano come la promissaria acquirente avesse rifiutato di concludere il contratto definitivo, lamentando un pericolo di evizione parziale del bene, identificabile con la riferita provenienza del bene da donazione lesiva delle quote di legittima spettanti agli eredi necessari del donante e con la mancata partecipazione all’atto dell’erede interdetto.
Pericolo, a detta dei ricorrenti, non attuale ma meramente potenziale, posto che alla data di stipula del contratto definitivo il tutore dell’erede pretermesso non aveva proposto alcuna azione volta ad ottenere l’annullamento o a far dichiarare l’inefficacia della vendita del bene in oggetto.
2. La posizione della Corte alla luce dell’orientamento giurisprudenziale
Muovendosi nel solco di un orientamento pressoché costante sul punto, la Suprema Corte di Cassazione sposa la tesi dei ricorrenti, ribadendo che la facoltà prevista dall’art. 1481 c.c. presuppone un pericolo di rivendica concreto, effettivo ed attuale, che non può identificarsi con il mero timore soggettivo di subire l’evizione. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2541 del 17/03/1994, Rv. 485762).
Anche quando il compratore è consapevole che la cosa appartiene ad altri, è dunque necessario vi siano circostanze oggettive dalle quali desumere l’effettiva e concreta intenzione del legittimo proprietario di rivendicare, in maniera non palesemente infondata, il bene.
Tale impostazione trova riscontro nel riconoscimento, in favore del promissario acquirente, del diritto a sospendere il pagamento del prezzo e dunque a stipulare il contratto definitivo, qualora sul bene oggetto di preliminare venga trascritto un atto di citazione con cui un terzo richiede il trasferimento del bene in proprio favore (Cass. Sez. 2, sent. 24340 del 18.11.2011, Rv. 619708).
Analogamente, in materia fallimentare, la giurisprudenza ha rilevato come il fallimento del dante causa del promissario alienante di un immobile, e dunque l’eventuale possibilità di una revocatoria fallimentare, non sono di per sé sufficienti a legittimare la sospensione del pagamento del prezzo, ai sensi dell’art. 1481 c.c., da parte del promissario acquirente.
Anche in tal caso occorre infatti un pregiudizio attuale, concreto ed effettivo, comprovato da indizi ed elementi oggettivi tali da far emergere la reale volontà di un terzo di agire per ottenere il riconoscimento dei suoi asseriti diritti sul bene. (Cass. Sez.2, Sentenza n. 5979 del 22/06/1994, Rv.487153; conf. Cass. Sez.2, Sentenza n. 3390 del 22/02/2016, Rv.638762).
3. La decisione della Corte
Con specifico riferimento al caso in esame, la mera provenienza dell’immobile da una donazione, pur se potenzialmente lesiva dei diritti dei legittimari, non integra, dunque, di per sé un pericolo effettivo di evizione, occorrendo indizi concreti ed oggettivi dell’effettiva volontà di rivendica del bene da parte di terzi.
Nè la consapevolezza, da parte della promissaria acquirente circa la predetta provenienza dell’immobile è circostanza idonea, in assenza di altri elementi oggettivi, a legittimare l’inadempimento del promissario acquirente o a consentirgli di chiedere la prestazione di idonea garanzia ai sensi dell’art. 1481 c.c.
Di qui la cassazione della decisione impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello.
(Altalex, 8 aprile 2019. Nota di Irene Marconi)
continua
Ministero della Giustizia risponde dei danni cagionati dal peculato del cancelliere
Lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo.
A stabilirlo sono le sezioni unite della Cassazione con 16 maggio 2019, n. 13246.
La soluzione
Lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza, purchè la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo.
PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI | |
Cass. 21 novembre 2006, n. 24744 | Affichè ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente – responsabilità il cui fondamento risiede nel rapporto di immedesimazione organica – deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l’evento dannoso, anche la riferibilità all’amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l’attività posta in essere dal dipendente sia e si manifesti come esplicazione dell’attività dell’ente pubblico, e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto. Tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico che si riveli assolutamente estraneo all’amministrazione – o addirittura contrario ai fini che essa persegue – ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l’attività del dipendente e la P.A. (Rigetta, App. Milano, 1 Febbraio 2002) |
Cass. 17 settembre 1997, n. 9260 | Affinchè ricorra responsabilità della p.a. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente – responsabilità il cui fondamento risiede nel rapporto di immedesimazione organica – deve sussistere oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l’evento dannoso anche la riferibilità all’amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l’attività posta in essere dal dipendente sia e si manifesti come esplicazione dell’attività dell’ente pubblico, e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto. Tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico che si riveli assolutamente estraneo all’amministrazione – o addirittura contrario ai fini che essa persegue – ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra attività del dipendente e la p.a., senza che il venir meno di tale rapporto e della conseguente responsabilità risarcitoria dell’amministrazione sia in alcun modo impedito dalla circostanza che il fatto lesivo sia stato posto in essere da un dipendente che per la particolare disciplina a lui applicabile, sia da considerare “in servizio” anche nel periodo di legittima astensione dalla prestazione lavorativa. (Nella specie la S.C. nell’enunziare il principio di cui alla massima ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità del Ministero della difesa in un caso nel quale un militare dell’arma dei carabinieri, durante una riunione conviviale in un locale pubblico, volendo dar prova della propria abilità nel maneggio delle armi aveva fatto partire accidentalmente un colpo dalla pistola di ordinanza, uccidendo una delle persone che assistevano alla dimostrazione). |
Cass. 6 dicembre 1996, n. 10896 | L’attività del dipendente costituisce fonte di responsabilità dell’ente pubblico di appartenenza quando tale attività è diretta a conseguirne i fini istituzionali e si svolge nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio al quale il dipendente è addetto. |
Cass. 13 dicembre 1995, n. 12786 | Con riguardo agli illeciti commessi da dipendenti della p.a., non sono riferibili alla Pubblica Amministrazione stessa quelle attività dettate da fini assolutamente estranei a quelli propri della p.a. o non legate nemmeno da un nesso di occasionalità necessaria con i compiti affidati al dipendente; pertanto, la frattura del rapporto organico esclude la responsabilità della Pubblica Amministrazione. |
Cass. 3 dicembre 1991, n. 12960 | Il rapporto organico tra la p.a. ed il dipendente, in forza del quale la prima risponde dei danni arrecati a terzi dal secondo, risulta interrotto soltanto quando il comportamento dell’agente non sia diretto al conseguimento di fini istituzionali, ma unicamente al soddisfacimento di finalità c.d. , del tutto estranee alle mansioni esplicate. |
Cass. pen. 20 gennaio 2015, n. 13799 | E’ configurabile la responsabilità civile della pubblica amministrazione per il fatto dei propri dipendenti che, sfruttando l’adempimento di funzioni pubbliche a essi espressamente attribuite e in esclusiva ragione di un tale adempimento, il quale costituisce l’occasione necessaria e strutturale del contatto con i terzi, tengano condotte, anche di rilevanza penale e pur volte a perseguire finalità esclusivamente personali, che cagionino danni a questi ultimi, ogniqualvolta tali condotte risultino il non imprevedibile ed eterogeneo sviluppo di un non corretto esercizio di dette funzioni. |
Cass. pen. 3 aprile 2017, n. 35588 | È configurabile la responsabilità civile della pubblica amministrazione anche per le condotte delittuose dei dipendenti pubblici dirette a perseguire finalità esclusivamente personali, purché l’adempimento delle funzioni pubbliche costituisca un’occasione necessaria che l’autore del reato sfrutta per il compimento degli atti penalmente illeciti. (Fattispecie in cui la Corte ha evidenziato che l’esercizio delle funzioni pubbliche da parte dell’imputato aveva agevolato la produzione del danno nei confronti della persona offesa, anche se le condotte erano state poste in essere fuori dall’orario di lavoro). (Annulla in parte con rinvio, App. Milano, 26/02/2016) |
Cass. pen. 11 giugno 2003, n. 33562 | La pubblica amministrazione deve ritenersi civilmente responsabile, in base al criterio della c.d. «occasionalità necessaria», degli illeciti penali commessi da propri dipendenti ogni qual volta la condotta di costoro non abbia assunto i caratteri della assoluta imprevedibilità ed eterogeneità rispetto ai loro compiti istituzionali, sì da non consentire il minimo collegamento con essi. (Nella specie, trattandosi di atti di violenza sessuale posti in essere da una insegnante di scuola materna nei confronti dei minori a lei affidati, sotto pretesto di finalità di igiene attinenti alla sfera sessuale, la Corte ha ritenuto correttamente affermata la concorrente responsabilità civile della P.A., considerando che tra i compiti delle maestre di scuola materna rientra anche quello di insegnare agli alunni gli elementi essenziali dell’igiene personale). |
Cass. civ. 6 marzo 2008, n. 6033 | Condizione necessaria e sufficiente affinchè possa ritenersi integrata la figura di responsabilità obiettiva prevista dall’art. 2049 cod. civ. è l’esistenza di un rapporto di causalità – tra le mansioni affidate al lavoratore e l’evento dannoso – riconducibile al cd. “rapporto di occasionalità necessaria” in virtù del quale le incombenze affidate devono essere tali da determinare una situazione che renda possibile o anche solo agevole, la consumazione del fatto illecito e ciò anche qualora il lavoratore abbia operato oltre i limiti del proprio incarico e contro la volontà del committente ovvero, abbia agito con dolo sempre nell’ambito delle proprie mansioni. |
Cass. civ. 24 luglio 2009, n. 17393 | Sussiste la responsabilità indiretta della banca, ex art. 2049 cod. civ., nei confronti dei terzi in relazione all’attività illecita posta in essere da un promotore finanziario, allorché, indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e dal carattere di continuità dell’incarico affidato all’agente, detta attività sia stata agevolata o resa possibile dal suo inserimento nell’attività d’impresa, (nella specie emersa dalla sua presenza nei locali della banca, dall’utilizzo della modulistica di pertinenza e dalla spendita del nome), e sia stata realizzata nell’ambito e coerentemente alle finalità in vista delle quali l’incarico è stato conferito, in maniera tale da far apparire al terzo in buona fede che l’attività posta in essere per la consumazione dell’illecito rientrasse nell’incarico affidato dalla banca mandante. (Rigetta, App. Milano, 10/02/2004) |
Cass. civ. 10 novembre 2015, n. 22956 | L’intermediario risponde per i danni arrecati a terzi dai promotori finanziari nello svolgimento delle incombenze loro affidate purché il fatto illecito del promotore sia legato da un nesso di occasionalità necessaria con l’esercizio delle mansioni cui sia adibito, sicché il comportamento doloso (anche di rilevanza penale) del preposto pur non interrompendo, di norma, il nesso causale fra l’esercizio delle incombenze e il danno, ove si verifichino determinate circostanze, quali una condotta del risparmiatore “anomala”, vale a dire, se non di collusione, quanto meno di consapevole e fattiva acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore, è configurabile – e il relativo accertamento compete insindacabilmente al giudice di merito – l’assoluta estraneità della banca al fatto del promotore, sì da interrompere il nesso causale ed escludere la responsabilità dell’Istituto di credito. (Nella specie, la S.C. ha escluso la responsabilità dell’intermediario, da un lato, per l’esistenza di un separato mandato conferito dall’investitore al promotore, che ha consentito a quest’ultimo di operare per conto del primo con amplissima autonomia, e, dall’altro, per l’assoluta estraneità della banca al fatto del dipendente). (Rigetta, App. Torino, 13/10/2008) |
Per l’illecita sottrazione di somme depositate presso un ufficio giudiziario ed alle quali avrebbe avuto diritto quale parte di un giudizio di divisione, D.B.G. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Catania, il cancelliere S.G. ed il Ministero della Giustizia, chiedendone la condanna al risarcimento del danno a lui derivato dal comportamento illecito dello S., il quale si era appropriato di quelle somme, poi venendo condannato per peculato.
Il Ministero convenuto si costituì e chiese il rigetto della domanda; ma, rimasto contumace lo S. , il Tribunale la accolse e condannò il Ministero convenuto al pagamento, in favore del D.B. , della somma di euro 46.896,32, oltre interessi e spese di giudizio, ritenuti sussistenti i presupposti dell’estensione della responsabilità all’Amministrazione, a norma dell’art. 28 Cost..L’appello del Ministero, cui resistette il solo D.B. , fu in parte accolto dalla corte territoriale, che mandò assolto l’appellante da ogni pretesa risarcitoria per avere il suo dipendente agito per un fine strettamente personale ed egoistico, estraneo all’Amministrazione e addirittura contrario ai fini che essa perseguiva, idoneo ad escludere ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente.
Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Catania, D.B.G. propose ricorso basato su un unico motivo.
Fu disposta la rimessione alle Sezioni Unite della questione, ritenuta oggetto di giurisprudenza non univoca, sulla sussistenza o meno della responsabilità civile della pubblica amministrazione per i fatti illeciti dei propri dipendenti, qualora il dipendente, profittando delle sue precipue funzioni, commetta un illecito penale per finalità di carattere esclusivamente personale.
La sentenza impugnata ha rigettato la domanda risarcitoria della vittima del peculato del cancelliere in base all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, affinché ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente, poiché il fondamento di quella risiede nel rapporto di immedesimazione organica, deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l’evento dannoso, anche la riferibilità all’Amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l’attività posta in essere dal dipendente si manifesti come esplicazione dell’attività dell’ente pubblico e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto; tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico, che si riveli del tutto estraneo all’amministrazione o perfino contrario ai fini che essa persegue ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l’attività del dipendente e la P.A.
Dall’altro lato, però, almeno in tempi recenti la giurisprudenza penale di legittimità configura la responsabilità civile della pubblica amministrazione pure per le condotte dei pubblici dipendenti dirette a perseguire finalità esclusivamente personali e mercé la realizzazione di un reato doloso, ove poste in essere sfruttando l’occasione necessaria offerta dall’adempimento delle funzioni pubbliche cui essi sono preposti, nonché integranti il non imprevedibile od eterogeneo sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni, in applicazione del criterio previsto dall’art. 2049 c.c.
Ad analoga estensione della responsabilità civile si assiste nella giurisprudenza civile di legittimità in altri ambiti di preposizione, meramente privatistici, quali quelli propri dei funzionari di banche o dei promotori di queste o di società di intermediazione finanziaria, in ordine ai quali è stata riconosciuta la responsabilità dei preponenti anche nei casi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra le incombenze attribuite al preposto e il danno arrecato a terzi: nesso che è presupposto indispensabile della responsabilità del preponente ex art. 2049 c.c., e non viene meno in caso di commissione da parte del preposto di un illecito penale per finalità di carattere esclusivamente.
Di qui il rilievo della non univocità della giurisprudenza in materia e la rimessione della relativa questione alle Sezioni Unite.
Deve allora constatarsi una non piena coerenza tra le impostazioni ermeneutiche di questa Corte di legittimità: una prima, propria della prevalente odierna giurisprudenza civilistica e di quella preponderante penalistica più risalente (e, per la verità, anche quella amministrativa), per la quale la responsabilità dello Stato (o degli enti pubblici) per il fatto illecito dei propri dipendenti (o funzionari) è diretta e sussiste, in forza di criteri pubblicistici, esclusivamente in caso di attività corrispondente ai fini istituzionali, quando cioè, in virtù del rapporto organico, quella vada imputata direttamente all’ente; una seconda, propria soprattutto della giurisprudenza penalistica più recente e di parte di quella civilistica (ora più remota e poi superata, ora minoritaria, ora riferita in prevalenza a rapporti di preposizione privatistici), in base alla quale sussiste la responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico in applicazione di criteri privatistici, corrispondenti sostanzialmente a quelli in tema di responsabilità del preponente ai sensi dell’art. 2049 c.c., sol che sussista un nesso di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
Le Sezioni Unite ritengono di comporre la disomogeneità tra dette impostazioni rilevando che nessuna ragione giustifichi più, nell’odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato dell’attività dello Stato o dell’ente pubblico rispetto a quello di ogni altro privato, quando la prima non sia connotata dall’esercizio di poteri pubblicistici: e che, così, vada riconsiderato il preponderante orientamento civilistico dell’esclusione della responsabilità in ipotesi di condotte contrastanti coi fini istituzionali o sorrette da fini egoistici.
In particolare, deve ammettersi la coesistenza dei due sistemi ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto altrui: entrambi sono validi, poiché il primo non esclude il secondo ed ognuno viene in considerazione a seconda del tipo di attività della P.A. di volta in volta posta in essere. Infatti, il comportamento della P.A. che può dar luogo, in violazione dei criteri generali dell’art. 2043 c.c., al risarcimento del danno o si riconduce all’estrinsecazione del potere pubblicistico e cioè ad un formale provvedimento amministrativo, emesso nell’ambito e nell’esercizio di poteri autoritativi e discrezionali ad essa spettanti, oppure si riduce ad una mera attività materiale, disancorata e non sorretta da atti o provvedimenti amministrativi formali.
Orbene, nel primo caso (attività provvedimentale o, se si volesse generalizzare, istituzionale in quanto estrinsecazione di pubblicistiche ed istituzionali potestà), l’immedesimazione organica di regola – pienamente sussiste e bene è allora ammessa la sola responsabilità diretta in forza della sicura imputazione della condotta all’ente.
Nel secondo caso, di attività estranea a quella istituzionale o comunque materiale, ove pure vada esclusa l’operatività del criterio di imputazione pubblicistico fondato sull’attribuzione della condotta del funzionario o dipendente all’ente, non può però negarsi l’operatività di un diverso criterio: non vi è alcun motivo per limitare la responsabilità extracontrattuale dello Stato o dell’ente pubblico – se correttamente ricostruita, pure ad evitarne strumentali distorsioni o improprie sconsiderate dilatazioni al di fuori dell’esercizio di una pubblica potestà quando ricorrano gli altri presupposti validi in caso di avvalimento dell’operato di altri.
Per sintetizzare quanto fin qui esposto, occorre dunque postulare una natura composita della responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico per il fatto illecito del dipendente o funzionario, per applicare i principi della responsabilità indiretta elaborati per l’art. 2049 c.c., all’attività non provvedimentale (o istituzionale) della pubblica amministrazione; e, in base ad essi, affermarne la concorrente e solidale responsabilità per i danni causati da condotte del preposto pubblico definibili come corrispondenti ad uno sviluppo oggettivamente non improbabile delle normali condotte di regola inerenti all’espletamento delle incombenze o funzioni conferite, anche quale violazione o come sviamento o degenerazione od eccesso, purché anche essi prevenibili perché oggettivamente non improbabili.Sono, pertanto, fonte di responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico anche i danni determinati da condotte del funzionario o dipendente, pur se devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale del conferimento del potere di agire, purché:
– si tratti di condotte a questo legate da un nesso di occasionalità necessaria, tale intesa la relazione per la quale, in difetto dell’estrinsecazione di detto potere, la condotta illecita dannosa – e quindi, quale sua conseguenza, il danno ingiusto – non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base al giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta;nonché:– si tratti di condotte raffigurabili o prevenibili oggettivamente, sulla base di analogo giudizio, come sviluppo non anomalo dell’esercizio del conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica pure che il potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle istituzionali o ad esse contrarie e dovendo farsi carico il preponente delle forme, non oggettivamente improbabili, di inesatta o infedele estrinsecazione dei poteri conferiti o di violazione dei divieti imposti agli agenti. |
Infine, adeguata protezione del preponente dal rischio di rispondere del fatto del proprio ausiliario o preposto al di là dei generali principi in tema di risarcimento del danno extracontrattuale si ravvisa nell’applicazione anche in materia di danni da attività non provvedimentale della P.A. dei principi in tema di elisione del nesso causale in ipotesi di caso fortuito o di fatto del terzo o della vittima di per sé solo idoneo a reciderlo e di quelli in tema di riduzione del risarcimento in caso di concorso del fatto almeno colposo di costoro.
Alla luce di quanto sopra, il principio di diritto declinato in relazione alla fattispecie concreta può essere così enunciato: l’Amministrazione della Giustizia risponde dei danni cagionati dal delitto di peculato del cancelliere che, in ragione dell’esercizio delle funzioni conferitegli (nella specie, di custodia o concorso nella custodia delle somme, ricavate nel corso di un giudizio civile di divisione, depositate per il perseguimento dello scopo istituzionale della consegna agli aventi diritto), abbia obiettivamente violato, per fini personali od egoistici, i propri doveri di ufficio (nella specie, appropriandosi delle somme giacenti su libretto di deposito giudiziario affidato alla sua custodia mediante falsificazione della firma del funzionario competente per il mandato di pagamento ed accesso presso il depositario per la riscossione).
Esito del ricorso
Cassa, con rinvio, la sentenza della Corte di appello di Catania n. 1353, depositata in data 13.8.2015
Riferimenti normativi
Art. 28 Cost.
Art. 2049 c.c.
(Altalex, 6 giugno 2019. Nota tratta da Il Quotidiano Giuridico Wolters Kluwer)
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Caduta sul sagrato della chiesa: risarcisce il comune o la diocesi?
Il danno cagionato da un bene destinato all’attività di culto (la scalinata di una cattedrale) è imputabile all’ente ecclesiastico a cui appartiene (Diocesi o parrocchia); nessun onere di conservazione è imputabile al Comune anche se il bene, per consuetudine, sia asservito ad un uso pubblico, a meno che il danneggiato non dimostri che l’ente territoriale goda di una detenzione o di un potere di fatto sulla res.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con l’ordinanza 28 febbraio 2019 n. 5841.
La vicenda
Un fedele, mentre si recava in chiesa, inciampava su un gradino rotto presente sul sagrato e riportava delle lesioni. Visto che la caduta era stata causata dall’insidia non adeguatamente segnalata, conveniva in giudizio sia la Diocesi che il Comune. In primo grado, veniva accolta la domanda risarcitoria proposta contro l’ente ecclesiastico, mentre era rigettata quella svolta contro l’amministrazione comunale. In sede di gravame, invece, veniva accolta l’eccezione di carenza di legittimazione sollevata dalla Diocesi (che aveva dimostrato di non essere proprietaria del bene) e la sentenza veniva riformata, giacché il danneggiato non aveva fornito la prova che l’ente ecclesiastico avesse la materiale disponibilità della scalinata; per la medesima motivazione, veniva respinta anche la richiesta avanzata contro il Comune. Si giunge così in Cassazione.
La dimostrazione della qualità di custode è preliminare alla disamina del nesso causale tra il fatto e l’evento lesivo. Infatti, la Diocesi ha eccepito di non essere proprietaria della cattedrale che, invece, appartiene alla parrocchia. Inoltre, il danneggiato non ha dimostrato che la custodia e la manutenzione della scalinata di accesso al duomo spettassero alla Diocesi, in quanto rientranti nella sua materiale disponibilità. Infine, la Cassazione rileva come la titolarità, sia essa attiva o passiva, della posizione soggettiva attenga al merito e, pertanto, non sia sindacabile in sede di legittimità; infatti, rientra nel problema della fondatezza della domanda, oltre che della verifica della sussistenza del diritto fatto valere in giudizio ed è onere dell’attore allegarlo.
Diocesi o parrocchia: a chi appartiene il sagrato?
La chiesa cattolica si divide territorialmente nelle “chiese particolari”, ossia le diocesi che, a loro volta, sono ripartite in parrocchie. La diocesi, secondo il diritto canonico, è la porzione del popolo di dio affidata alla cura pastorale di un vescovo; mentre la parrocchia rappresenta la cellula di tutta l’organizzazione della chiesa, la cui cura pastorale è affidata al parroco [1]. La Legge 222/1985 recante disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi, all’art. 29 dispone che «con provvedimenti dell’autorità ecclesiastica competente, vengono determinate […] la sede e la denominazione delle diocesi e delle parrocchie costituite nell’ordinamento canonico». Secondo le difese svolte dalla diocesi, il vescovo aveva assegnato la cattedrale – in cui si è verificato il fatto – alla parrocchia, pertanto si ravvisa una carenza di legittimazione passiva. La legittimazione a contraddire consiste nell’identità della persona del convenuto con la persona di fronte a cui tale potere di agire è dato; in buona sostanza, in caso di difetto di legittimazione passiva, il convenuto contesta la titolarità del diritto per cui si agisce. Banalmente, se il bene che ha cagionato il danno appartiene alla parrocchia, ma si conviene in giudizio un altro soggetto (la diocesi, nel nostro caso), v’è una carenza di legittimazione passiva.
Natura privata del sagrato del duomo
Secondo il Codex Iuris Canonici, la chiesa è un edificio sacro destinato al culto divino, ove i fedeli possono entrare ed esercitare pubblicamente il culto. La condizione giuridica delle chiese si estende alle loro pertinenze, cioè ai locali accessori che assolvono ad una funzione complementare all’esercizio del culto (la sacrestia, il campanile, gli uffici parrocchiali, la casa canonica et cetera).
Per affermare la natura privata del sagrato della cattedrale, la Corte fa riferimento ai Patti lateranensi (Legge 27 maggio 1929, n. 848), in cui si considerano privati tutti i beni appartenenti agli enti ecclesiastici e le loro pertinenze. Inoltre, la Legge 7 luglio 1866 n. 3036 ha usato il sintagma “edifici di culto” in senso ampio, comprendendo non solo gli edifici destinati a chiesa, ma anche i sagrati, «consistenti in un’area di distacco tra le chiese e le strade o piazze su cui prospettano, i quali sono destinati esclusivamente ai fini di una migliore esplicazione dell’attività di culto che vengono esercitate nelle chiese e dello svolgimento di cerimonie religiose ed altri atti di culto che si svolgono all’aperto» (Cass. 4362/1957).
Diritto di uso pubblico e luoghi di culto
Il ricorrente ha agito anche contro il Comune; secondo le sue argomentazioni, tra l’ente territoriale e la scalinata si sarebbe creato un rapporto di custodia generato da un uso pubblico del bene; con il suddetto uso si fa riferimento ad una particolare limitazione della proprietà privata nell’interesse generale [2]. L’elemento costitutivo della fattispecie consiste nell’atto di messa a disposizione del bene, la cosiddetta dicatio ad patriam, ossia il comportamento del proprietario (diocesi/parrocchia) rivolto a mettere il bene (la cattedrale e, quindi, il sagrato) a disposizione di una comunità indeterminata di cittadini per soddisfare un’esigenza comune con carattere di continuità [3]. Un caso classico di beni privati aperti al pubblico è rappresentato dai luoghi di culto di proprietà privata (art. 831 c.c.). Un altro esempio è dato dalle strade vicinali private. Il vincolo di uso pubblico su strada vicinale permette alla collettività di esercitarvi il diritto di servitù di passaggio, tuttavia non altera il diritto di proprietà sulla medesima, che rimane privata (Cass. 15618/2018; Cass. 11028/2011). La responsabilità per danni per mancata manutenzione non può gravare sull’amministrazione comunale, perché i compiti di ripristino gravanti sul Comune, non comportano l’obbligo di provvedere alla loro manutenzione e custodia (Cass. 4482/2009). Anche se il titolare del bene lo mette a disposizione della collettività, assoggettandolo all’uso pubblico (Cass. 4207/2012), tale circostanza non è sufficiente «per trasferire il potere di fatto sulla cosa (ovvero gli oneri di custodia) sull’ente territoriale preposto alla gestione e manutenzione delle adiacenti pubbliche vie». In altre parole, l’eventuale sussistenza di un uso pubblico della scalinata della chiesa, non è sufficiente per dimostrare la responsabilità del Comune per omessa custodia. Del pari, non si considera custode il titolare di un diritto di servitù di passaggio, giacché la sua esistenza non sottrae al titolare del fondo servente la disponibilità e la custodia della cosa, né la attribuisce al proprietario del fondo dominante (Cass. 17492/2012).
Conclusioni
In definitiva, secondo la Suprema Corte, il danneggiato non ha dimostrato che la Diocesi fosse custode della chiesa né della sua scalinata d’accesso. Parimenti, non ha provato che il Comune fosse tenuto all’obbligo di manutenzione del sagrato, giacché è mancata la prova della disponibilità giuridica o materiale della scalinata. Per tale ragione, la Corte ha rigettato il ricorso e ha enunciato il seguente principio di diritto:
«la responsabilità da omessa custodia di un bene destinato all’attività di culto, anche se per consuetudine asservito a un uso pubblico, grava sul proprietario del bene e non sull’ente territoriale su cui insiste il bene, a meno che non sia dimostrata una detenzione o un potere di fatto dell’ente territoriale sulla cosa».
Onere di provare il rapporto di custodia
Nell’azione ex art. 2051 c.c., il danneggiato deve dimostrare il danno subito ed il nesso causale tra l’evento e la cosa custodita. Naturalmente, l’azione va esperita contro il custode, ossia il soggetto che ha proprietà o la materiale disponibilità della rescausativa dell’evento dannoso. Per giurisprudenza consolidata (Cass. 7403/2007), la custodia si sostanzia nel:
- potere di controllo sulla res;
- potere di modificare la situazione di pericolo insita nella cosa;
- potere di escludere qualsiasi terzi dall’ingerenza sul bene.
Secondo la Cassazione, il ricorrente non ha provato il rapporto di custodia, ossia non ha dimostrato che Diocesi sia proprietaria o detentrice di fatto o abbia la disponibilità giuridica e materiale del duomo e delle sue pertinenze. «La responsabilità ex art. 2051 c.c. postula la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa» (Cass. Ord. 27724/2018; Cass. 15761/2016).
(Altalex, 21 marzo 2019. Nota di Marcella Ferrari)
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Banca sbaglia a pagare l’assegno non trasferibile? Risponde per colpa lieve
L’errore commesso nell’identificazione del legittimo portatore del titolo, integra la responsabilità contrattuale della banca, che è tenuta al risarcimento del danno per colpa lieve, fino a prova contraria.
E’ quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12477 del 21 maggio 2018.
Nella vicenda in esame, una Compagnia assicurativa aveva convenuto in giudizio il proprio istituto di credito per aver questo emesso un assegno di traenza non trasferibile intestato ad un assicurato, posto all’incasso da un uomo, munito di carta di identità e tesserino del codice fiscale falsi, che si era spacciato per il legittimo beneficiario. Dunque l’attrice aveva eccepito che la banca convenuta non aveva adempiuto all’obbligo previsto dal R.D. n. 1736 del 1933, art. 43, commi 1 e 2, che impone alla banca negoziatrice di pagare l’assegno non trasferibile al prenditore, nè al dovere di identificare con diligenza colui che aveva presentato l’assegno e lo aveva incassato, e ne chiese la condanna al risarcimento del danno subito per essere stata costretta a rinnovare il pagamento dovuto all’effettivo titolare del credito da indennizzo.
Costituitasi in giudizio, la banca negò la propria responsabilità, deducendo che il portatore dell’assegno si era presentato ai suoi sportelli esibendo carta di identità e codice fiscale corrispondenti alle generalità dell’effettivo beneficiario e che, non essendo emerse irregolarità, gli era stato consentito di aprire un libretto di risparmio nominativo sul quale era stata accreditata la somma rinveniente dall’incasso del titolo, che era stata poi prelevata fino all’azzeramento del credito, prima che la banca ne chiedesse la restituzione. La convenuta chiese pertanto il rigetto della domanda ed in subordine, ottenuta l’autorizzazione a chiamare in causa la banca emittente, chiese di essere da questa interamente manlevata.
Il tribunale adito, accolse parzialmente la domanda dell’Assicurazione, rigettando la domanda di manleva della convenuta. Tale decisione, è stata riformata dalla Corte territoriale che aveva rivalutato il danno liquidato in favore dell’attrice con decorrenza dalla data della domanda, anziché da quella in cui si era prodotto; aveva, inoltre, respinto il primo motivo dell’appello principale rilevando che la banca negoziatrice rispondeva di un danno da inadempimento contrattuale, rispetto al quale la sua responsabilità andava valutata ai sensi degli artt. 1176 e 1218 c.c.
Avverso tale sentenza, la Compagnia assicurativa ha proposto ricorso per cassazione.
La prima sezione civile della Cassazione con ordinanza interlocutoria, ha rilevato che, sussistendo un contrasto giurisprudenziale sulla questione, di oggettiva rilevanza, riguardante la natura della responsabilità della banca che abbia pagato l’assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore, ha rimesso la causa al Primo Presidente, il quale l’ha poi assegnata alle Sezioni Unite.
Nello specifico, la questione di diritto sulla quale il Supremo Consesso è stato chiamato a pronunciarsi, concerne l’interpretazione dell’art. 43, comma 2 l.a., che stabilisce che “colui che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore o dal banchiere giratario per l’incasso, risponde del pagamento”.
A tal riguardo, assume rilievo la sentenza n. 14712 del 2007, con cui le Sezioni Unite sono intervenute per comporre un precedente contrasto di giurisprudenza sorto circa la natura contrattuale, extracontrattuale o ex lege) della responsabilità derivante dal pagamento dell’assegno non trasferibile a persona diversa dal soggetto prenditore.
Con tale sentenza, è stato precisato che l’espressione “colui che paga”, adoperata dall’art. 43, comma 2, l.a., deve essere intesa in senso ampio, così da riferirsi non solo alla banca ma anche alla banca negoziatrice, che è l’unica concretamente in grado di operare controlli sull’autenticità dell’assegno e sull’identità del soggetto che, girandolo per l’incasso, lo immette nel circuito di pagamento; pertanto, va riconosciuta la natura contrattuale alla responsabilità cui si espone il banchiere che abbia negoziato un assegno munito della clausola di non trasferibilità in favore di un soggetto non legittimato.
A ciò si aggiunga che, le regole di circolazione e di pagamento dell’assegno munito di clausola di non trasferibilità, pur svolgendo indirettamente una funzione di rafforzamento dell’interesse generale alla corretta circolazione dei titoli di credito, sono dirette a tutelare i diritti di coloro che sono interessati alla circolazione di quello specifico titolo; in effetti, ognuno di questi confida sul fatto che l’assegno verrà pagato solo con le modalità e nei termini che la legge prevede e la cui concreta esecuzione è rimessa ad un soggetto, il banchiere, dotato di specifica professionalità al riguardo. Da ciò dipende, da un lato, l’affidamento di tutti gli interessati alla corretta esecuzione dei compiti inerenti al servizio bancario, e dall’altro, la specifica responsabilità in cui il banchiere incorre nei confronti di coloro che entrano in contatto con lui per avvalersi di quel servizio, qualora, al contrario, egli non dovesse rispettare le regole stabilite dalla legge al riguardo.
Nel caso in esame, le Sezioni Unite, condividendo la summenzionata pronuncia hanno ribadito che la responsabilità della banca negoziatrice per avere consentito, in violazione delle specifiche regole poste dall’art. 43 legge assegni (R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736), l’incasso di un assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità, a persona diversa dal beneficiario del titolo, ha natura contrattuale, avendo la banca un obbligo professionale di protezione nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione, di far sì che il titolo stesso sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l’incasso.
Pertanto, è contrattuale la responsabilità della banca negoziatrice, in quanto derivante da contatto qualificato-inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. e dal quale derivano i doveri di correttezza e buona fede enucleati dagli artt. 1175 e 1375 c.c. – non appare più condivisibile la tesi secondo cui detta banca risponde del pagamento dell’assegno non trasferibile effettuato in favore di chi non è legittimato “a prescindere dalla sussistenza dell’elemento della colpa nell’errore sull’identificazione del prenditore”.
Alla luce di ciò, si delinea una responsabilità da contatto sociale qualificato, secondo gli artt. 1176 e 2118 c.c., per cui, nel caso di specie, la banca negoziatrice che ha pagato l’assegno non trasferibile a persona diversa dall’effettivo prenditore deve provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza dovuta ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, in quanto operatore professionale, tenuto a rispondere del danno anche in ipotesi di colpa lieve.
In conclusione, le Sezioni Unite hanno enunciato il principio di diritto: “ai sensi dell’art. 43, comma 2, legge assegni (R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736), la banca negoziatrice chiamata a rispondere del danno derivato- per errore nell’identificazione del legittimo portatore del titolo- dal pagamento di assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità a persona diversa dall’effettivo beneficiario, è ammessa a provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall’art. 1176 c.c., comma 2.”
(Altalex, 8 giugno 2018. Nota di Maria Elena Bagnato)
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Morte del coniuge: sì al cumulo di risarcimento e pensione di reversibilità
Dal risarcimento del danno patrimoniale, patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui, non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità, accordata dall’INPS al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto. L’attribuzione pensionistica, infatti, non rappresenta un lucro, ossia un gratuito vantaggio patrimoniale, ma dipende da un sacrificio economico del lavoratore. Tale “beneficio collaterale”, in quanto espressione di una scelta di sistema, conforme al respiro costituzionale della sicurezza sociale, non può ritenersi soggetto alla compensatio lucri cum damno.
Così hanno stabilito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza del 22 maggio 2018 n. 12564.
La fattispecie
A seguito di un sinistro stradale, uno dei soggetti coinvolti perdeva la vita. La di lui moglie agiva in giudizio contro il responsabile ed il suo assicuratore per ottenere il risarcimento dei danni patiti a cagione della morte del congiunto; in particolare, chiedeva il ristoro del danno patrimoniale da perdita dell’aiuto economico ricevuto dal marito. In primo ed in secondo grado, i giudici ritenevano che l’erogazione della pensione di reversibilità del coniuge, a favore della donna, elidesse l’esistenza di un danno patrimoniale[1] e, sul punto, rigettavano la domanda dell’attrice. Si giungeva così in Cassazione. Stante la complessità della questione giuridica sottesa alla fattispecie, veniva assegnato il ricorso alle Sezioni Unite al fine di risolvere il seguente contrasto di giurisprudenza: «se, in tema di danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui, dall’ammontare del risarcimento debba essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto».
In buona sostanza, la questione giuridica riguarda la circostanza se il danno, consistente nella perdita dell’aiuto economico offerto dal defunto, debba essere liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della pensione di reversibilità di cui beneficia il superstite.
La Suprema Corte, prima di risolvere la quaestio iuris, ripercorre le argomentazioni addotte dai due orientamenti contrapposti.
I due orientamenti giurisprudenziali
1) L’orientamento prevalente[2] ritiene che la pensione di reversibilità, erogata dall’INPS, a favore dei congiunti, non debba essere “calcolata” ai fini della liquidazione del danno patrimoniale da morte del familiare. In altre parole, dall’importo riconosciuto a titolo di risarcimento non deve essere detratto quanto già percepito dal coniuge (o congiunto) a titolo di pensione di reversibilità. La ratio giustificatrice è da ricercarsi nella natura non risarcitoria dell’erogazione previdenziale. Inoltre, l’attribuzione pensionistica vanta un titolo giuridico diverso dal fatto illecito e, pertanto, è inapplicabile la compensatio lucri cum damno. Il danneggiante, infatti, può pretendere la compensatio solo qualora il vantaggio patrimoniale sia stato determinato dal suo fatto illecito; il lucro, quindi, deve essere conseguenza immediata e diretta del danno. Per contro, se il beneficio che ottiene il danneggiato trova la sua fonte in un titolo diverso – indipendente dal fatto illecito – non può darsi luogo alla detrazione. Nel caso di specie, la morte rappresenta una mera condizione per il verificarsi di una conseguenza giuridica (ossia l’erogazione della pensione di reversibilità).
2) L’orientamento di cui sopra, granitico per decenni, è stato messo in discussione recentemente[3] con l’affermazione del principio del non cumulo. In pratica, «dall’ammontare del risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui deve essere sottratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto, attesa la funzione indennitaria assolta da tale trattamento, che è rivolto a sollevare i familiari dallo stato di bisogno derivante dalla scomparsa del congiunto, con conseguente esclusione, nei limiti del relativo valore, di un danno risarcibile». Si tratta di un vero e proprio rovesciamento della posizione tradizionale, che trova il proprio ubi consistam normativo nell’interpretazione unitaria dell’art. 1223 c.c.Secondo la suddetta ricostruzione giuridica, il citato articolo va letto in modo simmetrico sia quando bisogna accertare il danno che quando si deve individuare il vantaggio eventualmente creatosi. Il lucro e il danno non devono considerarsi come un credito ed un debito distinti per genesi e contenuto. Rileva unicamente che il lucro sia una conseguenza immediata e diretta del danno; ossia senza il danno non vi è il vantaggio[4]. In buona sostanza, i fautori di questo orientamento ritengono applicabile il defalco del valore capitale della pensione di reversibilità dal risarcimento del danno in virtù dell’applicazione della compensatio lucri cum damno.
La compensatio lucri cum damno
La compensazione del lucro con il danno è un principio secondo il quale la determinazione del danno risarcibile deve tenere conto degli effetti vantaggiosi per il danneggiato, che hanno causa immediata e diretta nel fatto dannoso[5]. Si tratta di un istituto in base al quale la reintegrazione del patrimonio leso deve corrispondere alla differenza tra il valore attuale e quello che poteva essere se non fosse stato commesso l’illecito. Il danneggiato non può conservare un incremento patrimoniale eventualmente acquisito in conseguenza del fatto illecito[6], è il cosiddetto principio di indifferenza: «il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato, ma non oltrepassarlo, non potendo costituire fonte di arricchimento del danneggiato, il quale deve invece essere collocato nella stessa curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato se non avesse subito l’illecito». In altri termini, il risarcimento non deve impoverire il danneggiato ma neppure arricchirlo, creando una situazione economica migliore di quella preesistente al fatto di danno.
Titolo del danno e titolo del lucro
Affinché possa applicarsi la compensazione del lucro con il danno è necessario che vi sia il medesimo titolo per ambedue. L’orientamento prevalente ritiene che, nel caso in esame, il titolo sia diverso e, pertanto, non possa aver luogo la compensatio. Invece, il secondo orientamento giurisprudenziale stigmatizza la pretesa della medesimezza del titolo; infatti, ritenere che il danno derivi dall’illecito – e l’incremento patrimoniale no – spezza la serie causale. Inoltre, il cumulo di benefici – indennitario (pensione) e risarcitorio (risarcimento) – determina una locupletazione del danneggiato incompatibile con la natura meramente reintegratoria della responsabilità civile. Il quesito che emerge, quindi, è se il giudice debba tener conto, nella stima del danno, delle attribuzioni che la vittima riceve da parte di soggetti pubblici o privati, quando l’evento causato dall’illecito costituisca il presupposto stesso per l’attribuzione di benefici, il cui risultato sia attenuare il pregiudizio causato dall’illecito.
Il percorso decisionale delle Sezioni Unite
La Corte esamina l’ambito di operatività della compensazione nella circostanza in cui il vantaggio, per il danneggiato, derivi da un titolo diverso e da un soggetto distinto dal danneggiante; soggetto obbligato per legge o contratto ad erogare un beneficio collaterale[7]. Nel caso in esame, si riscontra un rapporto bilaterale: 1) da una parte, v’è la relazione tra il fatto illecito ed il risarcimento del danno patrimoniale patito dai familiari; 2) dall’altra, si trova la relazione discendente dalla legislazione previdenziale, che assicura la pensione di reversibilità ai superstiti nel caso in cui il decesso dipenda da fatto illecito altrui. Occorre, quindi, accertare se l’incremento patrimoniale, verificatosi in connessione con l’evento dannoso, per effetto del beneficio collaterale avente un proprio titolo e una relazione causale con un diverso soggetto tenuto per legge, debba cumularsi con il risarcimento del danno.
Defalco o cumulo: quando opera la compensatio
La regola del defalco della posta indennitaria dalla somma risarcitoria vale nei casi di titoli differenti, ma unicità di soggetto responsabile del danno e obbligato alla provvidenza indennitaria. La compensatio opera in tutti i casi in cui si assista ad una coincidenza tra il soggetto autore dell’illecito, tenuto al risarcimento, e quello chiamato per legge ad erogare il beneficio, con l’effetto di assicurare al danneggiato una reintegra del suo patrimonio completa e senza duplicazioni. A titolo esemplificativo, si pensi ai casi di risarcimento del danno da emotrasfusioni, in cui dal risarcimento va detratto quanto percepito a titolo di indennizzo, giacché, in caso contrario, la vittima si gioverebbe di un arricchimento, ponendo a carico dello stesso soggetto (il Ministero della Salute) due diverse attribuzioni patrimoniali per il medesimo fatto lesivo[8].
Per contro, si applica il cumulo in presenza di duplicità di posizioni pretensive e di diversi soggetti tenuti all’erogazione: ossia il danneggiante e l’ente erogatore della pensione. La Corte ribadisce come il beneficio (ossia l’erogazione della pensione) non sia conseguenza immediata e diretta del fatto illecito; il danno rappresenta soltanto la condizione affinché un diverso titolo spieghi la sua efficacia[9]. Il beneficio è in rapporto di mera occasionalità con il danno e, pertanto, non può giustificarsi alcun defalco. Inoltre, i titoli sono distinti: da una parte il fatto illecito e dall’altra la norma di legge[10]. La condotta illecita rappresenta non la causa del beneficio, ma la mera occasione di esso. Non sarebbe corretto attribuire rilievo ad ogni vantaggio, diretto o indiretto, conseguente dall’illecito, giacché si finirebbe per dilatare le poste imputabili al risarcimento, riconoscendo quasi un merito al danneggiante.[11] «Le conseguenze vantaggiose, come quelle dannose, possono computarsi solo finché rientrino nella serie causale dell’illecito, da determinarsi secondo un criterio adeguato di causalità, sicché il beneficio non è computabile in detrazione con l’applicazione della compensatio, allorché trovi altrove la sua fonte e nell’illecito solo un coefficiente causale».
I supremi giudici ritengono che la valutazione sull’ammissibilità del cumulo non debba ridursi ad un calcolo contabile, ma occorra porre mente alla ragione giustificatrice che porta l’attribuzione patrimoniale nel patrimonio del danneggiato. Ciò che rileva, quindi, non è la coincidenza formale dei titoli, ma il collegamento funzionale tra la causa dell’attribuzione patrimoniale e l’obbligazione risarcitoria. «La pensione di reversibilità, appartenente al più ampio genus delle pensioni ai superstiti, è una forma di tutela previdenziale nella quale l’evento protetto è la morte, vale a dire un fatto naturale che, secondo una presunzione legislativa, crea una situazione di bisogno per i familiari del defunto, i quali sono i soggetti protetti». La pensione di reversibilità non persegue finalità indennitarie, ma rappresenta una promessa che l’ordinamento mantiene nei confronti del lavoratore-assicurato, il quale ha contribuito a formare la propria posizione previdenziale sacrificando una parte del proprio reddito lavorativo. La promessa si sostanzia nella circostanza per cui, quando egli avrà cessato di vivere, vi è la garanzia per i suoi congiunti di un trattamento volto a tutelarne il sostentamento o alleviarne lo stato di bisogno.
Conclusioni
La Suprema Corte non aderisce al recente orientamento favorevole al defalco e confuta, punto per punto, le ragioni su cui si basa. In primis, nega la funzione indennitaria attribuita alla pensione di reversibilità, ribadendo che il valore della pensione non va scomputato dal risarcimento. La vera causa del beneficio «deve essere individuata nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente e assorbente rispetto alla circostanza (occasionale e giuridicamente irrilevante) che determina la morte». L’acquisto della pensione di reversibilità dipende da un sacrificio economico del lavoratore e, quindi, non rappresenta un lucro, ossia un gratuito vantaggio economico. La suddetta argomentazione trova un forte addentellato costituzionale nel principio di solidarietà[12] (art. 2 Cost.), nella garanzia delle minime condizioni economiche e sociali che consentono l’effettivo godimento dei diritti civili e politici (art. 3 c. 2 Cost.), nel diritto del lavoratore al trattamento previdenziale (art. 38 c. 2 Cost.) rispetto alla generalità dei cittadini[13] (art. 38 c. 1 Cost.). Al lume di quanto sopra, la Suprema Corte esclude che si applichi la compensatio lucri cum damno al caso di specie ed enuncia il seguente principio di diritto: «dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto»
(Altalex, 29 maggio 2018. Nota di Marcella Ferrari)
continua
Caduta del motociclista: Comune responsabile se il pericolo era prevedibile
L’amministrazione comunale è responsabile del danno subito dal motociclistacaduto a causa della cera presente sul manto stradale, in seguito ad una processione religiosa. Nel caso di specie, infatti, non ricorre il caso fortuito di cui all’art. 2051 c.c., in quanto il custode (ossia il comune) ha avuto la possibilità di prevedere che la cosa in custodia (la strada), così come inserita nel concreto dinamismo causale, avrebbe potuto cagionare il danno.
In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione con l’ordinanza del 23 gennaio 2019 n. 1725, confermando, ancora una volta, l’orientamento della giurisprudenza sula responsabilità della pubblica amministrazione per danno da cosa in custodia.
La vicenda
Prima di analizzare la fattispecie in oggetto ricordiamo brevemente in cosa consiste responsabilità ex art. 2051 c.c.
Responsabilità oggettiva aggravata
L’art. 2051 c.c. prevede una forma di responsabilità oggettiva, in cui il custode può liberarsi solo dimostrando il verificarsi di un evento imprevedibile. La responsabilità per danno da cose in custodia è “aggravata” per il danneggiante, in quanto spetta a lui – e non al danneggiato – fornire la prova liberatoria; inoltre, non è sufficiente dimostrare un’assenza di colpa, ma si deve provare l’esistenza di un fatto estraneo alla condotta dell’agente, idoneo ad interrompere il nesso causale. Si considera tale il fatto naturale, il fatto del terzo e il fatto dello stesso danneggiato. L’art. 2051 c.c. esonera il soggetto che ha subito il nocumento dall’onere di allegare la colpa del danneggiante, ma non da quello di provare la connessione eziologica tra la cosa in custodia (nel nostro caso, il manto stradale) ed il danno (ossia le lesioni subite dal motociclista). In altre parole, occorre dimostrare che l’evento si sia prodotto come conseguenza della particolare condizione del bene custodito (Cass. 2075/2002).
Caso fortuito e fatto imprevedibile
La Suprema Corte ritiene che i giudici di merito si siano discostati dalla corretta interpretazione dell’insegnamento nomofilattico, errando nella qualificazione del caso fortuito. Ut supra ricordato, il fortuitus casus è ciò che non può prevedersi; è costituito da eventi che interrompono la serie causale e che consistono in condotte di terzi o del danneggiato, purché non siano conoscibili né eliminabili con immediatezza. In altre parole, la condotta del terzo, di per sé sola, non è sufficiente a spezzare il nesso eziologico, ma occorre che sia connotata da caratteristiche di imprevedibilità e non conoscibilità. Nel caso di specie, la condotta del terzo di cui sopra è quella dei fedeli muniti di cero votivo, tuttavia il loro comportamento, ossia la circostanza che dalle fiaccole coli la cera, è prevedibile, pertanto, la prevenzione della conseguenza pregiudizievole rientra appieno nell’attività di custodia. Il custode, infatti, non deve solo vigilare su quanto già accaduto (manutenzione stricto sensuintesa), ma anche su ciò che è prevedibile (manutenzione lato sensu, ossia prevenzione). Al lume di ciò, secondo la Cassazione, rientra nel caso fortuito “quel che è impossibile vigilare”; è tale ciò che fuoriesce dall’area del possibile. Infatti, «vigilanza non è soltanto conoscere il presente, ma anche trarne le conseguenze per il futuro; non è quindi solo accertare e rimediare, ma anche prevedere e prevenire».
Prevedibilità ex ante ed obbligo di vigilanza del custode
La Cassazione, nella pronuncia in esame, sottolinea come i giudici di merito abbiano ignorato il profilo della prevedibilità. In particolare, a nulla rileva l’esiguo margine di tempo intercorso tra la processione ed il sinistro. Infatti, in virtù dell’obbligo di vigilanza gravante sul custode, egli deve essere consapevole, ex ante, degli eventi pericolosi che coinvolgono il bene custodito. La custodia è connotata anche da un’attività di carattere preventivo; quindi, il custode deve predisporre quanto è necessario per prevenire danni eziologicamente connessi alla res custodita. Spetta al custode eliminare gli elementi pericolosi, non prevedibili – come la cera sulla strada – ma verificatisi in concreto; per questo la sua responsabilità è esclusa solo nel caso in cui non abbia avuto tempo sufficiente a neutralizzare l’imprevisto, intervenendo, in tale circostanza, il caso fortuito. Il concetto di prevedibilità è legato a quello di conoscibilità; l’obbligo del custode di prevedere lo stato del bene (ad esempio, la condizione della strada) dipende dalla conoscenza che questi abbia del potenziale pericolo. Nel nostro caso, il comune era edotto della processione religiosa e l’obbligo di vigilanza gli avrebbe imposto di agire, al fine di prevenire eventuali pericoli.
Dovere di custodia delle strade da parte dell’ente proprietario
Per completezza, ricordiamo che il Codice della Strada prevede in capo all’ente proprietario del bene l’obbligo di mantenerlo in buone condizioni, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione; l’ente deve occuparsi della manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; del controllo tecnico della loro efficienza, oltre all’apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta (art. 14 codice della strada). Tale obbligo è, altresì, previsto per i Comuni dall’art. 5 R.D. 15 novembre 1923, n. 2506. Torniamo ora all’ordinanza in commento; con essa, la Corte ribadisce la propria giurisprudenza in materia di obbligo di custodia in capo alla pubblica amministrazione sulle strade aperte al pubblico transito: l’ente non è responsabile del danno solo qualora si sia verificata un’alterazione imprevedibile e non tempestivamente eliminabile dello stato della cosa custodita (Cass. 8157/2009; Cass. 24419/2009; Cass. 15389/2011; Cass. 21508/2011; Cass. 8935/2013). Recentemente, si è affermato che la prova dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità dell’insidia o della condotta tenuta dal custode gravino sul custode medesimo, il quale deve provare di aver adottato tutte le misure idonee a prevenire il danno (Cass. 11802/2016); al contrario, il danneggiato ha l’onere di dimostrare il danno subito ed il nesso causale. Si è ribadito che l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito abbia l’obbligo di provvedere alla relativa manutenzione, nonché di prevenire e segnalare qualsiasi situazione di pericolo o di insidia (Cass. 18325/2018). La responsabilità è esclusa solo se l’evento sia causato da cause estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione (Cass. 6101/2013; Cass. 6703/2018). Come ricordato, la responsabilità dell’ente è esclusa in caso di fatto del terzo o del danneggiato; la condotta della vittima assume efficacia causale esclusiva soltanto se sia qualificabile come abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali prevedibili in relazione al contesto; in caso contrario, si inserisce nel classico concorso di colpa ex art. 1227 c.c. (Cass. ord. 2481/2018).
Sintetica casistica giurisprudenziale
In tema di responsabilità della P.A. per danni subiti da utenti di beni demaniali, la vigilanza del custode, secondo la Cassazione, viene circoscritta dal suo opposto, cioè dal caso fortuito. Le caratteristiche della cosa custodita, inoltre, delimitano il caso fortuito, riempiendo di contenuto l’obbligo custodiale sotto il profilo della prevedibilità. Infatti, la presunzione di responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. non si applica qualora il custode non abbia la possibilità di esercitare sul bene la custodia, da intendersi come potere di fatto su di essa. Tale possibilità va valutata non solo in base all’estensione dell’intero bene, ma anche alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, rilevando la natura, la posizione e l’estensione dell’area in cui si è verificato l’evento dannoso o, ancora, le dotazioni e i sistemi di sicurezza e di segnalazione di pericoli disponibili (Cass. ord. 2482/2018; Cass. ord. 25837/2017; Cass. 13222/2016; Cass. Ord.1257/2018). Così si è affermata la responsabilità del Comune nel caso della caduta del motociclista a causa dell’impatto contro un ostacolo costituito da una rete in plastica, posta a recinzione dell’area d’un cantiere stradale (Cass. Ord. 18325/2018). Parimenti, si è sostenuto che, nel caso della caduta dal motorino per via del materiale vischioso sul manto stradale, non visibile e non segnalato, spetti all’ente dimostrare che la presenza dell’olio sulla strada sia dipesa da una causa estemporanea, non eliminabile con immediatezza, (Cass. 6703/2018; Cass. 9631/2018). Dai precedenti giurisprudenziali emerge come l’art. 2051 c.c. operi per la P.A. in relazione ai beni demaniali, con riguardo, alla causa concreta del danno; l’amministrazione si libera dalla responsabilità se la causa del sinistro coincide con un fattore di pericolo che abbia esplicato la sua potenzialità offensiva prima che fosse ragionevolmente esigibile l’intervento riparatore dell’ente custode.
Conclusioni
La Cassazione censura la sentenza gravata, giacché il giudice di merito ha omesso di considerare la prevedibilità (o meno) dell’alterazione del manto stradale da parte dell’amministrazione comunale, custode del bene. Infatti, se la presenza della cera fosse stata prevedibile, il Comune avrebbe dovuto transennare la via sino alla sua pulizia o, quantomeno, segnalare il pericolo. In particolare, non si è esaminata la prova del caso fortuito gravante sul custode, ci si è limitati a rimarcare il lasso di tempo tra la processione e il sinistro, senza considerare l’esigibilità della conoscibilità ex ante, in termini di prevedibilità, da parte del custode dell’alterazione della strada. La Cassazione, quindi, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla corte territoriale in diversa composizione, affinché si attenga al seguente principio di diritto:
il caso fortuito esonerante il custode dalla responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. non sussiste qualora il custode abbia avuto possibilità di prevedere che la cosa che ha in custodia, così come inserita nel concreto dinamismo causale, avrebbe potuto cagionare il danno.
(Altalex, 14 febbraio 2019. Nota di Marcella Ferrari)
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Immobile occupato abusivamente? Stato inerte deve risarcire
Un principio in diritto decisamente importante è stato posto nella sentenza 4 ottobre 2018, n. 24198 (Cassazione Civile), e che riguarda il rapporto fra discrezionalità amministrativa ed esecuzione di un provvedimento esecutivo.
La vicenda che ha dato origine alla controversia è ben sintetizzata nella pronuncia stessa: “Non fu mai in contestazione nel presente giudizio che plurimi appartamenti di proprietà delle società oggi ricorrenti furono arbitrariamente occupati da una massa di persone organizzate, con atti di frode o di violenza; che la competente Procura della Repubblica ordinò il sequestro penale degli immobili, ordinandone lo sgombero; che nessuna delle articolazioni periferiche del Ministero dell’interno vi provvide, per il periodo di sei anni”.
In altri termini, i proprietari di un immobile occupato abusivamente da terzi, e rispetto alla cui occupazione era stato emesso un provvedimento esecutivo, hanno dovuto attendere oltre sei anni prima che lo sgombero fosse effettivamente eseguito da parte delle forze dell’ordine.
Le ragioni dell’attesa sono palesi nella altrettanto sintetica ricostruzione del contenuto della decisione del giudice d’appello: “Pacifici questi fatti, la Corte d’appello di Firenze ha tuttavia escluso la sussistenza d’una responsabilità aquiliana dell’amministrazione dell’interno, reputando che fu scelta discrezionale e non incolpevole tale strategia “attendista”, giustificata dalla esigenza di evitare turbative dell’ordine pubblico”.
In definitiva, per il giudice di secondo grado, il Ministero non avrebbe posto in essere alcuna condotta illecita lesiva dei diritti degli attori nella misura in cui, dando corso ad una tattica “attendista”, aveva esercitato discrezionalmente il proprio potere amministrativo.
Ma la Corte di cassazione, così posti i fatti, si è interrogata in ordine a due quesiti:
“(a) se sia consentito agli organi della pubblica amministrazione, deputati a dare attuazione ai provvedimenti dell’Autorità giudiziaria, astenervisi o sindacarne il contenuto;
(b) in caso di risposta negativa al quesito che precede, se i fatti così come accertati dalla Corte d’appello rendevano incolpevole, e quindi non risarcibile, il danno causato dalla p.a. alle odierne ricorrenti.”
Quesiti a cui la Corte, come subito si vedrà, ha dato risposta negativa.
Sul primo punto, le conclusioni della pronuncia risultano particolarmente taglienti.
Infatti, dopo aver contestato la logicità stessa del ragionamento del Ministero, secondo cui uno sgombero forzoso avrebbe innescato problematiche di ordine pubblico, evidenziando il paradosso del ragionamento stesso in quanto proprio l’occupazione abusiva di una massa di persone costituisce un problema di ordine pubblico, giunge alla chiara affermazione che segue: “Che in uno Stato di diritto la pubblica amministrazione abbia l’obbligo ineludibile di dare attuazione ai provvedimenti giurisdizionali è questione talmente ovvia ed elementare che pare a questa Corte sinanche ultroneo dovervisi soffermare vieppiù”.
In altri termini, posta l’ovvia separazione fra poteri dello Stato, una volta che vi sia un provvedimento giurisdizionale esecutivo non vi è alcuno spazio per esercitare alcun potere discrezionale in ordine al se e quando eseguirlo.
Ma anche sul secondo fronte la Corte non lascia spazio a interpretazioni: “La Corte d’appello ha ritenuto infatti che la p.a., chiamata a dare esecuzione ad un provvedimento giudiziario, avesse la facoltà di scegliere se e quando darvi attuazione. S’è già detto, tuttavia, che tale pretesa discrezionalità è impensabile in uno stato di diritto. L’unica discrezionalità di cui la p.a. gode, quando sia chiamata a dare attuazione ad un provvedimento giudiziario, è verificare se quel provvedimento esista davvero.”
E da tali considerazioni emerge la chiara illiceità della condotta tenuta dall’amministrazione, oggetto della reprimenda della Corte, la quale ha poi impreziosito la propria prosa con un suggestivo richiamo alle pragmatiche considerazioni del filosofo francese Pascal: “non rendendo forte la Giustizia, si finirebbe per rendere giusta la Forza”.
Conclude dunque la pronuncia per la cassazione della sentenza di appello, con rinvio al giudice di secondo grado, non prima di aver affermato il seguente principio di diritto:
“La discrezionalità della p.a. non può mai spingersi; se non stravolgendo ogni fondamento dello Stato di diritto, a stabilire se dare o non dare esecuzione ad un provvedimento dell’autorità giudiziaria, a maggior ragione quando questo abbia ad oggetto la tutela di un diritto riconosciuto dalla Costituzione o dalla CEDU, come nel caso del diritto di proprietà, tutelato dall’art. 41 Cost. e dall’art. 6 CEDU ed art. 1 del Primo Protocollo addizionale CEDU. E’ pertanto colposa la condotta dell’amministrazione dell’interno che, a fronte dell’ordine di sgombero di un immobile abusivamente occupato, trascuri per sei anni di dare attuazione al provvedimento di sequestro con contestuale ordine di sgombero impartito dalla Procura della Repubblica”.
(Altalex, 2 novembre 2018. Nota di Riccardo Bianchini)
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Riconosciuto il diritto di entrare nella morte ad occhi aperti
Il colpevole ritardo nella diagnosi di patologia ad esito infausto determina il danno derivante dalla perdita di un “ventaglio” di opzioni, con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima.
I fatti
Si discute se la errata diagnosi di una patologia comunque ad esito infausto esaurisca il pregiudizio recato ovvero integri una diversa ed autonoma fattispecie di danno derivante dalla perdita della scelta del modo di vivere le ultime fasi della propria vita.
La decisione
Con riferimento a fattispecie di omessa tempestiva diagnosi di patologie oncologiche ad esito, comunque, infausto, la Suprema Corte aveva già indicato che fosse errato affermare che la condotta omissiva non incida sulla qualità di vita del paziente; infatti, una simile affermazione non tiene in debito conto la possibilità che (nel lasso di tempo intercorso tra la diagnosi errata e quella esatta), nel paziente perdura il suo stato di sofferenza fisica senza che ad esso possa essere apportato un qualche pur minimo beneficio a causa della diagnosi errata (Cass. Sez. 3, sent. 18 settembre 2008, n. 23846). Inoltre, da una diagnosi esatta di una malattia ad esito ineluttabilmente infausto consegue che il paziente, oltre ad essere messo nelle condizioni per scegliere (se possibilità di scelta vi sia) «che fare», deve anche essere messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche nelle quali quell’essere si esprime, in vista di quell’esito” (Cass. Sez. 3, sent. 18 settembre 2008, n. 23846).
Questa libertà, cioè scegliere come affrontare l’ultimo tratto del proprio percorso di vita, è una situazione meritevole di tutela “al di là di qualunque considerazione soggettiva sul valore, la rilevanza o la dignità, degli eventuali possibili contenuti di tale scelta” (Cass. Sez. 3, ord. n. 7260 del 2018).
La Cassazione aveva precedentemente sottolineato l’autonomia che tale tipo di danno presenta rispetto a quello da “perdita di chance”, pure ipotizzabile in caso di “malpractice” sanitaria. Si è, infatti, affermato che, quando “la condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull’esito finale, rilevando di converso, «in pejus», sulla sola (e diversa) qualità ed organizzazione della vita del paziente”, si è in presenza di un “evento di danno” e di un “danno risarcibile” che è “in tal caso rappresentato da tale (diversa e peggiore) qualità della vita”, da intendere anche “nel senso di mancata predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo”, e ciò “senza che, ancora una volta, sia lecito evocare la fattispecie della chance” (Cass. 9 marzo 2018, n. 5641).
Quindi, in presenza di colpevoli ritardi nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l’area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente (privato, in ipotesi, della possibilità di guarigione o, in alternativa, di una più prolungata – e qualitativamente migliore – esistenza fino all’esito fatale), ma include la perdita di un “ventaglio” di opzioni, con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima, ovvero “non solo l’eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all’attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d’indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all’ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine”, giacché, tutte queste scelte “appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali” (Cass. Sez. 3, ord. n. 7260 del 2018).
Del resto, e non casualmente, lo stesso legislatore è intervenuto – in questi ultimi anni – a dare rilievo e tutela alla libertà dell’individuo. Rileva, in tale prospettiva, innanzitutto la legge 15 marzo 2010 n. 38 (Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore), recante un “corpus” di norme aventi come scopo, tra l’altro, anche (art. 1, comma 3, lett. “b”) la “tutela e promozione della qualità della vita fino al suo termine”. Non priva di rilievo è, poi, la stessa legge 22 dicembre 2017 n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), la quale (all’art. 4) riconosce ad ogni persona maggiorenne e capace di intendere e volere, “in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte”, la possibilità sia di “esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari”, sia di nominare, al medesimo scopo, un fiduciario, stabilendo, nel contempo, che tali direttive anticipate sono “rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento”.
L’autodeterminazione del soggetto chiamato alla più intensa prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine, non è, dunque, priva di riconoscimento e protezione sul piano normativo, e ciò qualunque siano le modalità della sua esplicazione: non solo il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all’opposto, la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche la mera accettazione della propria condizione, perché “anche la sofferenza e il dolore, là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un’inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose” (Cass. Sez. 3, ord. n. 7260 del 2018, cit.).
La sentenza si chiude, con mirabile lucidità ed intensa malinconia, ricordando, senza citarla, Marguerite Yourcenar ed il suo capolavoro “Memorie di Adriano”, che termina con una poesia scritta realmente dall’Imperatore Adriano, nel concetto di “entrare nella morte ad occhi aperti”: “piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più… Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti…”…
(Altalex, 28 maggio 2019. Nota di Carmine Lattarulo)
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Affido esclusivo non può fondarsi solo sulla diagnosi della Pas
La diagnosi di alienazione parentale non avendo basi scientifiche certe, non basta per allontanare il figlio dal genitore: il giudice dovrà tener conto non solo della ctu che l’ha accertata, bensì di ulteriori, approfondite indagini.
E’ quanto chiarito dalla Cassazione Civile, Sez. I, nella sentenza n. 13274 depositata il 18 maggio 2019.
Nella vicenda in esame, la Suprema Corte ha accolto il ricorso di una donna contro la decisione con cui, la Corte territoriale, aveva disposto l’affidamento del figlio in via esclusiva al padre ex articolo 337 quater cod. civ., previo immediato allontanamento dalla casa, ove viveva con la madre, e collocazione del minore, per un semestre, presso una comunità. Nella sentenza d’appello, i giudici avevano condiviso la tesi dei consulenti tecnici, i quali avevano diagnosticato la sussistenza della Pas, in quanto il comportamento materno era stato giudicato idoneo a generare “un conflitto di lealtà nella prole, che può dare fondamento alla diagnosi di alienazione del figlio nei confronti del padre”, precisando inoltre, “ciò che rileva è l’individuazione di condotte tendenti ad escludere l’altro genitore e sovrapporre gli ambiti dell’affettività propria a quella del minore”.
La Cassazione ha rilevato che, qualora le risultanze della ctu si allontanino dalla scienza medica ufficiale, come nel caso in oggetto, in cui è stata formulata la diagnosi della PAS, non essendovi certezze scientifiche al riguardo, il Giudice del merito, avrebbe dovuto comunque verificarne il fondamento. Inoltre, la Corte Territoriale, collegando le ragioni del rifiuto del figlio di vedere il padre, ad alcuni comportamenti della madre, aveva dichiarato l’inidoneità della madre a causa dei predetti comportamenti, e richiamando comunque il giudizio espresso dai consulenti tecnici, ne aveva disposto l’allontanamento per un semestre, incaricando, per il periodo successivo, i servizi Sociali di “programmare e garantire il rientro del minore presso la casa del padre e la gestione dei turni di responsabilità dei due genitori”.
In accoglimento della censura mossa dalla ricorrente, la Cassazione ha evidenziato che, nella sentenza impugnata, non sono state sviluppate adeguate e convincenti argomentazioni sull’inidoneità della madre all’affidamento, in una situazione di forte criticità dei rapporti tra la donna ed i Servizi sociali, non accogliendo, la rinnovata richiesta di una consulenza tecnica da parte della ricorrente, stante la sufficienza della relazione svolta dai consulenti tecnici nominati e l’atteggiamento non collaborativo della stessa. Orbene, i giudici dell’appello non avevano indicato per quale motivo l’affidamento in via esclusiva al padre, previo collocamento temporaneo dello stesso in una comunità o casa – famiglia, sarebbe stato l’unico strumento utile ad evitare al minore un maggiore pregiudizio ed a garantire al medesimo assistenza e stabilità affettiva, assicurando l’applicazione del principio della bigenitorialità.
Altro aspetto contestato dalla ricorrente è la mancata audizione del figlio. Anche tale motivo è stato ritenuto fondato dalla Cassazione, in quanto l’audizione del minore non poteva essere omessa, trattandosi di un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che lo riguardano ed, in particolare, in quelle relative all’affidamento ai genitori, per cui il mancato ascolto non sorretto da una espressa motivazione sulla contrarietà all’interesse del minore, sulla sua superfluità o sulla assenza di discernimento del soggetto interessato è fonte di nullità della sentenza, in quanto si traduce in una violazione dei principi del giusto processo e del contraddittorio.
Nel caso di specie, il minore è stato ascoltato nel giudizio di primo grado dai consulenti tecnici ed, in particolare, da un neuropsichiatra infantile nominato dal Tribunale; la Corte d’appello ha ritenuto, a distanza di tre mesi dalla decisione di primo grado, di non disporne una nuova audizione, ritenendola non necessaria ed addirittura contraria al suo interesse.
In merito a ciò, la Suprema Corte ha rilevato che il tempo trascorso dall’audizione del minore e la stessa violazione del principio della bigenitorialità, imponevano il rinnovo del suo ascolto, anche con il supporto di esperti.
Anche per tale motivo, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte territoriale competente in diversa composizione.
(Altalex, 28 maggio 2019. Nota di Maria Elena Bagnato)
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