Padre dell’alunno che denigra i metodi dell’insegnante paga i danni
Cassazione civile, sez. III, ordinanza 12/04/2018 n° 9059
La Corte di Cassazione, ordinanza 12 aprile 2018, n. 9059, ha accolto il ricorso avanzato da una insegnante di scuola elementare nei confronti del padre di un suo alunno, il quale aveva reiteratamente rivolto alla docente affermazioni diffamatorie e denigratorie, attribuendole di avere tenuto comportamenti particolarmente gravi nei confronti dei bambini (accuse poi rivelatisi insussistenti), e contestando in modo offensivo il metodo educativo e didattico da essa adottato nei confronti degli scolari.
Le conseguenze patite dalla maestra (sottoposta a visita psichiatrica, imputata di gravi reati, sospesa dal servizio e trasferita ad altra sede), conseguite alla condotta tenuta dal padre del minore, sono state ritenute gravissime dalla Suprema Corte e tali da giustificare la condanna di quest’ultimo al risarcimento di tutti i danni non patrimoniali dalla medesima patiti, cagionati dalla lesione della reputazione, dell’onore e della dignità dell’insegnante, ossia di valori e principi di rango sia costituzionale che sovranazionale.
Il fatto
Nel corso dell’anno scolastico 1993-94 una insegnante di una scuola elementare toscana veniva violentemente contestata da alcuni genitori in merito al proprio metodo educativo e didattico, e, in particolare, dal padre di uno degli alunni, il quale, tra l’altro, nel corso di una riunione indetta nel settembre del 1993 l’aveva qualificata come “un mostro”, e comunque come un “soggetto poco raccomandabile”, al cospetto degli altri genitori. L’uomo, inoltre, aveva in seguito inviato numerose lettere alla Direttrice didattica della scuola, attribuendo alla maestra comportamenti particolarmente gravi nei confronti dei bambini, tanto che, in conseguenza delle sue reiterate affermazioni diffamatorie, ella era stata addirittura sottoposta a valutazione psichiatrica medico-legale. Le suddette affermazioni scaturivano, altresì, in un procedimento penale a carico dell’insegnante, all’esito del quale la medesima veniva, tuttavia, assolta per insussistenza dei fatti. Non bastasse, nel corso di tale giudizio la donna veniva sottoposta alla misura interdittiva della sospensione dal pubblico servizio; inoltre, sempre a causa di tali vicende, cui era stato dato ampio risalto anche da parte della stampa locale, la maestra veniva trasferita d’ufficio in un’altra sede.
La decisione della Corte di Cassazione
La docente, tra i motivi del ricorso, lamentava, in particolare, l’omissione, da parte della Corte territoriale, di una valutazione complessiva di tutta la documentazione da essa prodotta a sostegno della propria domanda risarcitoria, come pure della molteplicità di azioni che, nel loro insieme, a suo dire, ne avevano screditato l’immagine e la reputazione, dalle quali invece sarebbe emerso il complessivo disegno diffamatorio posto in essere dal padre dell’alunno.
Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto manifestamente fondato il ricorso avanzato dall’insegnante.
Secondo gli ermellini, infatti, “una più attenta e approfondita valutazione dei fatti di causa, svolta secondo un procedimento logico-induttivo fondato sulla complessiva sinergia dimostrativa e sulla necessaria sintesi dei fatti di causa” avrebbe condotto inevitabilmente i giudici di merito a riconoscere come indubbio il diritto della ricorrente ad ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti.
In particolare, si legge nell’ordinanza in commento, “ciò che risulta del tutto omessa, nel decisum del giudice di appello, è la valutazione necessariamente diacronica e complessivamente sintetica dei fatti di causa, secondo un percorso ricostruttivo condottacausalità-evento-danno, che non avrebbe potuto che concludersi nella certa affermazione della responsabilità risarcitoria” del padre dell’alunno per aver violato la reputazione, l’onore, la stessa dignità dell’insegnante, così ledendo valori e principi di rango sia costituzionale che sovranazionale.
Invero, secondo i Supremi Giudici, “la condotta denigratoria ascritta all’odierno resistente ebbe”, nello specifico, “diacronicamente a dipanarsi attraverso una serie di atti e comportamenti univocamente e pervicacemente intesi a ledere l’onore, il prestigio e la stessa dignità dell’insegnante”.
Nel ripercorrere i fatti oggetto della controversia, in particolare, la Cassazione ha rammentato le conseguenze subite dalla docente a causa della condotta illecita tenuta dal resistente:
a) l’essere stata sottoposta a visita psichiatrica
b) l’essere stata imputata di gravi reati
c) l’essere stata sospesa dal servizio
d) l’essere stata trasferita ad altra sede
e le ha giudicate gravissime, specie in considerazione che tutte le accuse rivolte alla donna dal padre dell’alunno si erano poi dissolte in una pronuncia del giudice penale di insussistenza dei fatti contestati.
Ebbene, secondo i giudici di Piazza Cavour, le suddette gravi conseguenze non possono in alcun modo ritenersi “scriminate né sminuite, come erroneamente mostra di ritenere il giudice d’appello, nella scia del convincimento del tribunale, né dalla circostanza che anche altri”, insieme al resistente, “avrebbero contribuito alla verificazione degli eventi (tale affermazione ponendosi in evidente e irredimibile contrasto con il dettato dell’art. 41 c.p., in tema di concausalità dell’evento), né dalla accertata diacronia delle condotte – il cui dipanarsi nel tempo costituisce non una scriminante ma, di converso, un aggravante della condotta stessa – né tantomeno “dall’ormai conclamata dimensione collettiva e pubblica” dei fatti, ovvero dalla “autonoma risonanza” che la vicenda avrebbe assunto con lo scorrere del tempo”.
Inoltre, rileva la Suprema Corte, nella sentenza di appello non sono state affatto disattese le conclusioni raggiunte dal giudice penale, né è stata sottoposta a revisione la decisione con la quale l’insegnante è stata assolta da tutti gli addebiti per insussistenza dei fatti.
Alla luce dei principi sin qui esposti, la Cassazione ha giudicato viziata “da insanabile contraddittorietà logica, tale da relegarne la portata dimostrativa nella non redimibile dimensione dell’inesistenza”, l’affermazione, riferita all’episodio dell’invio del fax, secondo cui la trasmissione di detto documento (evidentemente non riconducibile all’autonoma iniziativa di un bambino e pur contenente, a detta di entrambi i giudici di merito, affermazioni lesive della reputazione dell’insegnante) non potesse ritenersi “idonea ad aggiungere elementi diversi ed ulteriori rispetto a quelli già emersi in quella realtà locale” (onde la sua irrilevanza ai fini dell’affermazione della sussistenza della illiceità e della offensività della condotta del resistente).
Molto significativo appare uno dei passaggi finali dell’ordinanza, nel quale il Giudice Relatore (il Consigliere Giacomo Travaglino), censurando il comportamento denigratorio tenuto dal resistente e denunciando il messaggio negativo trasmesso da simili episodi ai giovani, chiarisce:
a) come non sia “certo compito della giurisdizione sindacare, sul piano etico e sociale, il comportamento dei consociati in una determinata epoca storica, poiché il processo civile (e in particolare quello avente ad oggetto vicende di responsabilità civile) è funzionale ad offrire precise risposte, rigorosamente circoscritte al piano del diritto, a singole vicende che riguardano singole persone che chiedono tutela al giudice”;
b) come al contempo, purtuttavia, in via speculare il giudice civile, nella valutazione e liquidazione del quantum debeatur, non possa e non debba “ignorare, — quasi che la dimensione della giurisdizione si collochi entro un asettico territorio di pensiero tanto avulso dal reale, quanto insensibile ai mutamenti sociali e culturali in cui essa viene esercitata – il preoccupante clima di intolleranza e di violenza, non soltanto verbale, nel quale vivono oggi coloro cui è demandato il processo educativo e formativo delle giovani e giovanissime generazioni”.
Ritenuto, dunque, provato l’an debeatur, la Suprema Corte ha infine demandato al giudice del rinvio il compito di procedere alla liquidazione del danno sul piano equitativo, e di valutare con attenzione “tutte le circostanze emerse nel corso del giudizio, che hanno inevitabilmente cagionato un grave e duraturosentimento, sul piano sia emotivo che relazionale, di disistima, di vergogna e di sofferenza nel soggetto leso”.
Accolto il ricorso, la Corte ha così cassato la sentenza impugnata rinviando alla Corte di Appello competente per territorio in diversa composizione.